1)
Premessa:
Quello
del licenziamento disciplinare è uno dei capitoli più controversi che più hanno
occupato la dottrina giuslavoristica e alimentato il dibattito all’indomani
della riforma dell’art. 18 St. lav. da parte della legge 92/2012.
Il
motivo di tanto interesse è presto spiegato e sorge dalla constatazione
(univoca e non contestata da nessuno) della conclamata “frammentarietà” della
tutela reintegratoria, che viene circoscritta ai casi di “insussistenza del
fatto contestato” e di licenziamento comminato in trasgressione di una
disposizione collettiva o aziendale che preveda una sanzione conservativa”
(violazione della tipicità della sanzione).
Il
dibattito è grande per le non chiarite ricadute interpretative.
Da un lato, si
profilano quegli interpreti che, muovendo da considerazioni di “giustizia
sostanziale”, rilevano come la presente norma non disponga la reintegra per gli
“inadempimenti lievi” (ossia non rientranti nei tradizionali standard di “inadempimenti non notevoli”
ex. art. 03 l. 604/1966): stante la conclamata specialità della reintegra, a
tali licenziamenti parrebbe applicabile la tutela indennitaria ex. l. 604/1966
(vista la conclamata “specialità” della reintegra, non applicabile per
analogia), ovvero la più favorevole tutela ex. art. 18.05°comma, pur sempre
indennitaria. Per fare un esempio pratico, a questo riguardo si riporta
l’esempio del Dipendente che sia stato licenziato per essersi presentato in
servizio in stato di ebbrezza (fattispecie punita dai contratti collettivi, ma
mai con il licenziamento) godrebbe di una tutela reintegratoria; mentre
godrebbe di una mera tutela indennitaria il Lavoratore licenziato per essere
stato colto, pur perfettamente sobrio, a fumare una sigaretta nei locali
aziendali.
A questo
riguardo, si rileva che, complice tale “vuoto”, ne risulterebbe diminuito il
livello della sanzione, finendo così per agevolare il licenziamento del
dipendente per motivi futili, facilitando abusi e finanche ritorsioni. In
questo senso, si adduce che il ritardo di pochi minuti potrebbe essere
comminato dall’Azienda facilmente e, anche se invalidato, comporterebbe solo
una minima sanzione economica: una “monetizzazione” del licenziamento, che
diminuirebbe il disincentivo a condotte abusive e fraudolente, ma lederebbe in
fondo anche un caposaldo di giustizia sostanziale, il canone classico di tutela
“De minimis non curat praetor”.
Dall’altro,
gli assertori della più rigorosa “giustizia formale”, che, muovono dalla
constatazione della frammentarietà del nuovo art. 18.04-05°comma non per
correggerlo, ma per confermarlo come dato limitativo della discrezionalità
giudiziaria. Chè, altrimenti, questa è il motivo conduttore di tanti
interpreti, come di seguito evidenzieremo, a calcare troppo sull’equità, si
verrebbe a conferire al Giudice un potere ulteriore, capace di mettere a
rischio un caposaldo politico della riforma, il perseguimento dell’obiettivo
della certezza della tutela.
Chi
ha ragione?
Una
risposta immediata è, più che impossibile, ardua.
1) La riforma del licenziamento
disciplinare vista dal Giudice
Abbiamo detto nel
precedente post dedicato al licenziamento discriminatorio, che l’analisi
offerta da Noi non vuole essere analisi solo teorica, ma anche analisi
“revisionale” (nei limiti del possibile)delle verosimili ricadute “forensi”
della riforma dei licenziamenti.
Per questi
motivi, sarà opportuno prendere le mosse dalle considerazioni del Dr. VIDIRI[1], che,
per altro, in questo argomenti si palesano decisamente problematiche e
perplesse, per quanto mostrino una notevole sensibilità per i profili di
maggiore dubbio e incertezza.
Per la
verità, il Dr. VIDIRI condivide il punto di vista secondo cui la fattispecie
degli “inadempimenti lievi” costituisce una delle principali fonti di incertezza
applicativa, provocando ad esempio un’improvvida dilatazione dell’azione
anti-discriminatoria (actio doli). Ma
di questo aspetto, il Magistrato non è eccessivamente preoccupato, ritenendo
possibile e anche facile una correzione equitativa di questa “apparente” lacuna
di tutela del nuovo art. 18.04°comma:
Il comma 04- sostiene il dr. VIDIRI- trova
applicazione quando la procedura disciplinare risulti imbastita sul nulla o su
grossi equivoci, più o meno imputabili al Datore di Lavoro, ma in ogni caso non
troppo difficilmente accertabili.
(…)
A livello più generale, si può dire che il giudizio
sul binomio sussistenza/insussistenza del fatto non va formulato unicamente in
senso oggettivo, dal momento che la situazione esistente nella realtà fattuale
può essere inesistente o anche indifferente per il diritto.
Ciò
che, in realtà, costituisce a detta del Dr. VIDIRI il punto più problematico e
foriero di caos applicativo è altro.
La
norma, cioè, tutela con la reintegra quelle condotte che sono sfociate in un provvedimento
datorile di licenziamento, ma rispetto a cui il Codice Disciplinare aveva
previsto una sanzione conservativa. Ma che ne è nel caso in cui dallo stesso Codice Disciplinare –questa
l’osservazione di VIDIRI- uno stesso fatto sia passibile di sanzione
conservativa o licenziamento, in forza ad esempio di clausole di aggravamento
etc.? Qui, secondo il Dr. VIDIRI, la discrezionalità giudiziale può aumentare
in misure imprevedibile.
Va
comunque precisato che, particolarmente su questo specifico punto, l’analisi
del Dr. VIDIRI, pur autorevole per permetterci un’idea delle “ricadute”
pratiche, è carente nell’analisi.
Come
vedremo nel prossimo paragrafo, l’art. 18.04°comma, per la sua enorme
complessità di formulazione e confezione, determina tali e tanti “scogli”
esegetici, che, se non opportunamente doppiati, non consentono di individuare
un assetto di equilibrio soddisfacente. Affidarsi al buon senso pratico non può
bastare: occorre una “traversata” nel cuore della norma, non esiste altro modo
per illuminarne la portata pratica o operativa presso le Corti giudiziarie.
2)
Art.
18.04°comma: profili problematici di interpretazione:
Un
quadro molto efficace degli scogli e delle aporie interpretative dell’art.
18.04°comma l. 300/1970 è contenuto nelle considerazioni a questo riguardo
sviluppate da LUCCHETTI[2], i
cui passi in questa trattazione saranno citati per larghi spazi e per esteso.
LUCCHETTI
muove da una premessa di fondo: la reintegra è ipotesi connessa a casistiche
tipicamente individuate dalla legge di “ingiustificatezza qualificata”:
(…) Per stabilire punti fermi
quantomeno sotto il profilo terminologico, [si può] discorrere di
ingiustificatezza qualificata nelle tre descritte ipotesi di a) Insussistenza del fatto contestato; b) Espressa sanzionabilità in via
conservativa del fatto contestato; c)
Manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo.
Ciò chiarito, la mole delle
divergenze di disciplina derivante da una ingiustificatezza del licenziamento
ritenuta semplice o qualificata ha imposto, già nelle poche decine di giorni di
vigenza della riforma, dibattiti di sofisticata complessità, ai quali, in
questa sede, non ci si può sottrarre.
In particolare, le principali
criticità sembrano generare proprio dalla riconosciuta eccezionalità, dunque
tassatività, dunque non estendibilità analogica, di dette ipotesi di
ingiustificatezza qualificata, per poi degenerare, sul fronte del licenziamento
disciplinare, in distorsioni pratiche al limite del paradossale e, sul fronte
del licenziamento economico, in una discrezionalità giudiziale al limite
dell’arbitrio.
In
queste pagine, l’Autore chiaramente evidenzia come una delle conclamate
caratteristiche della nuova normativa sui licenziamenti ex. art. 18 l. 300/1970,
sia la “frammentarietà” delle previsioni di reintegra che obbliga l’interprete
a seguire minute casistiche e minute circostanze da cui far dipendere l’applicazione
della reintegra. “Frammentarietà” che l’ordinamento paga al rischio non solo di
(scontate) incertezze, ma anche di gravi disparità di trattamento.
E
di questi rischi, proprio il comma quarto del’art. 18 assurge a simbolo e a test (si direbbe) emblematico. A questi
fini, infatti,
(…) Una prima criticità attiene ai
rapporti intercorrenti tra “insussistenza del fatto contestato” e
“insufficiente gravità”.
Ci si chiede, in particolare, se un
licenziamento intimato in presenza di un fatto esistito in natura (ad esempio,
inadempimento), ma non sufficientemente grave (rectius notevole), possa dischiudere l’angusto canale di accesso
alla reintegrazione.
E
qui, l’Autore arriva ad individuare con straordinaria nettezza il cuore del
problema interpretativo dell’art. 18.04°comma:
(…) Sotto il profilo sistematico, ci
si chiede se il fatto contestato coinvolga o meno il momento valutativo e se,
di conseguenza, la tutela reintegratoria venga accordata nelle sole ipotesi in
cui non sussista in sé il fatto materiale contestato, ovvero se possa essere
accordata anche laddove il fatto materiale, pur esistente, sia stato valutato
in maniera eccessivamente rigorosa dal Datore di Lavoro in sede disciplinare.
Questo
passaggio identifica in modo emblematico il dilemma che affligge gli esegeti
davanti a questa sezione del nuovo art. 18: da un lato, evidenti considerazioni
di deontologia forense, che impongono il rigoroso rispetto di quella che
comunemente si chiama “giustizia formale”, ossia della coerenza degli assunti
applicativi rispetto al dato testuale e logico della legge; dall’altro, la
constatazione delle conseguenze aberranti ed insolute che tale interpretazione
(molto ortodossa) determina in punto di “giustizia sostanziale”.
Come risolve
il Ns. il dilemma? Deducendo un’interpretazione restrittiva della fattispecie
di reintegra:
Anzitutto, se è vero, come vero sembra, che
l’insussistenza del fatto è ipotesi di ingiustificatezza qualificata, essa non
può essere oggetto di interpretazione analogica o estensiva: su questi
presupposti, si faticherebbe non poco ad attribuire alla parola ‘fatto’ il significato
di ‘gravità’.
Inoltre, da un punto di vista
sistematico, arricchire la fattispecie dell’ “insussistenza del fatto
contestato” di una dimensione valutativa significherebbe svuotare, sino a
sguarnire di senso, le “altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del
giustificato motivo soggettivo o della giusta causa” per le quali è accordata
una tutela indennitaria: ed anzi, a ben vedere, questa categoria residuale (e
ripetesi, generale) sembra esistere proprio per regolare le ipotesi in cui il fatto
sussista, ma sia stato troppo ferocemente valutato in sede disciplinare.
Vediamo
di condurre l’analisi più dettagliatamente.
Molto ossequioso a canoni di
“giustizia formale”, LUCCHETTI denuncia (per bocca dello stesso Autore) più di
una lacuna in punto di “giustizia sostanziale” delle nuove tutele offerte dal
comma 04 dell’art. 18:
(…) La tutela reintegratoria sembrerebbe preclusa
tanto nei casi di lieve errore di valutazione, quanto in quelli di errore
plateale. Si pensi all’ipotesi, chissà quanto di scuola, di un licenziamento
fondato su un ritardo di pochi minuti: la tutela reintegratoria sarebbe
preclusa dall’esistenza in natura del ritardo o dello slittamento
dell’ingiustificatezza dal piano dell’esistenza del fatto materiale (il ritardo
come inadempimento dell’obbligo di osservare un orario di lavoro) a quello
della corretta valutazione del fatto (inadempimento “notevole”).
Tali
conclusioni diventano poi aberranti se rapportate ai risultati cui conduce
l’altro dei due canali di accesso alla reintegrazione, che si attiva allorchè
il fatto su cui si fonda il licenziamento disciplinare “rientra tra quelli
punibili soltanto con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei
contratti collettivi, ovvero dei codici disciplinari applicabili”.
E
in un’ottica di comparazione di casi analoghi, si registrerebbe una
irragionevole disparità di trattamento tra ipotesi di inadempimento
particolarmente gravi ma per le quali la disciplina collettiva commina una
sanzione conservativa, in cui il Lavoratore potrebbe usufruire del rimedio
reintegratorio, e ipotesi di inadempimento particolarmente bagatellare, proprio
per questo ignorate dalla contrattazione collettiva, in cui viceversa il
Lavoratore dovrebbe accontentarsi di una tutela meramente indennitaria, a
fronte del licenziamento disciplinare.
Per
fare un esempio, godrebbe di tutela reintegratoria il Dipendente, che sia stato
licenziato per essersi presentato in servizio in stato di manifesta
ubriachezza, mentre dovrebbe accontentarsi di una tutela indennitaria il
Dipendente licenziato per essere stato colto, pur perfettamente sobrio a fumare
una sigaretta.
3)
L’art. 18.04°comma quale species dell’actio doli. Critica:
La
denuncia dell’anomalia e della distorsione, allora, non potrebbe essere più chiara
e perentoria, così come l’auspicio:
Tale aberrazione- continua l’Autore- deve trovare
necessariamente un riequilibrio nel sistema.
Tale
distorsione è rilevata da tutti gli Autori che si sono cimentati nel commento
della riforma Fornero dell’art. 18, comune la denuncia del problema, ma enormi
a questo punto sono le divergenze che si aprono sulle soluzioni e tecniche
interpretative le più differenti. Quale la soluzione giusta? E’ concepibile un
riequilibrio delle tutele a partire da una più retta interpretazione dell’art.
18? Ovvero solo attraverso una riforma legislativa, ovvero una “correzione” in
sede di giudizio di legittimità costituzionale?
Un
primo gruppo di giuristi ha cercato di “colmare” il supposto indebito vuoto di tutela
ex. art. 18.04°comma della riforma Fornero ricorrendo all’actio doli, vuoi nella forma del “contratto in frode alla legge”
ex. art. 1344 del Codice Civile, vuoi
nella forma dell’azione contro “l’abuso del diritto”.
A questo
partito, appartengono sia LUCCHETTI, sia ANGIELLO-MOGLIA[3].
Nel constatare
quella che, a giudizio degli Autori, appare come una “schizofrenia” del nuovo
art. 18.04-05°comma (“la reintegra si applica, se l’insufficiente gravità della
condotta rientra nella tipizzazione collettiva; sennò, la reintegra non si
applica”) essi ritengono di poter “reagire” allargando l’area dell’actio doli nell’art. 18, con ciò, però,
partendo dalla presupposizione che la reintegra nel disegno della riforma sia
stata “limitata” a questa funzione.
Nel caso di
specie, tali Autori esprimono l’avviso che l’azione anti-licenziamento foriera
di reintegra compendiata nel comma 04 dell’art. 18 non sia altro che una
tipizzazione legislativa di una actio
doli, un’azione anti-fraudolenta in cui gli elementi (insussistenza del
fatto etc.) non farebbero che compendiarne (per semplificazione processuale) il
thema probandum. La conseguenza di
tale impostazione non tarda a lasciarsi apprezzare nel senso che, ricondotta
alla tutela contro la fraus legis la
tutela ex. art. 18.04°comma, ne verrebbero compendiate tutte le evenienze in
cui l’adduzione di motivi di licenziamento sia pretestuosa: e questo, comporta
una conseguente dilatazione della fattispecie “insussistenza dei fatti posti a
base del licenziamento” che vengono così dilatati fino a ricomprendervi ogni
caso di “inesistenza del fatto”, ovvero di “inoffensività conclamata” dei
medesimi.
Una simile
tendenza alla dilatazione dell’area dell’actio
doli (come correttivo a supposte lacune nella tutela anti-fraudolenta dei
Lavoratori) costituisce altresì tendenza di molti Autori, che, in alternativa
alla ricostruzione di ANGIELLO-MOGLIA (che tendono a ricostruire l’azione ex.
art. 18.04 come species di actio doli generalis), tendono comunque
a valorizzare, per questi casi, l’azione di nullità del licenziamento per
“Motivo illecito determinante” ex. art. 18.01°comma.
Contro
il pericolo di una dilatazione dell’area della reintegra in funzione
anti-fraudolenta, contro i pericoli di un allargamento in sede
giurisprudenziale di questa fattispecie, e della conseguente tutela
reintegratoria, tale da annullare gli effetti di “semplificazione” del
contenzioso perseguiti dalla riforma Monti-Fornero, si era già espresso il Dr.
VIDIRI nel contributo già citato nel post del 17/04 us. A questa
preoccupazione, sollevata dal Presidente della Sezione Lavoro della Cassazione
in sede “pratica”, fanno da contrappunto in sede dottrinaria tutti quegli
Autori, che hanno cercato una diversa ricostruzione dell’art. 18, più fedele al
dato letterale, ritenuto espressione più genuina della volontà legislativa.
Seconchè
questa dilatazione dell’actio doli per
compendiarvi il massimo numero possibile di condotte fraudolente e dolosamente
abusive del Datore di Lavoro in costanza di licenziamento, si presta a pesanti
obiezioni sul piano tecnico-giuridico e interpretativo: innanzitutto, non
riesce a dar conto del perché sulla stessa fattispecie “giusta
causa/giustificato motivo soggettivo” concorrano (per espresso dettato
legislativo!) due previsioni dell’art. 18, rispettivamente compendiate nel
comma 04 e nel comma 05, l’una con previsione di tutela reintegratoria, l’altra
con previsione di tutela indennitaria. Distinzione che non avrebbe alcuna
razionalità, partendosi dal presupposto che l’azione ex comma 04 sia una
specificazione dell’actio doli!
Assimilando il comma 04 all’actio doli,
ne deriverebbe la conclamata incostituzionalità del comma 05, che non avrebbe
ragione di prevedere una tutela indennitaria a fronte del comma 01 (quando il
licenziamento “fraudolento” è assistito da reintegra piena). Non solo, questa
tesi finirebbe per legittimare la stessa declaratoria di incostituzionalità
della reintegra attenuata, per manifesta sovrapponibilità con l’azione ex.
comma 01 disciplinata con reintegra piena!
Queste
considerazioni dovrebbero indurci, pertanto, ad una particolarissima prudenza
nel concludere verso facili assimilazioni tra commi 04-05 e comma 01 e l’actio doli: se a queste assimilazioni si
arriva condotti da una facile reazione di riprovazione e disgusto rispetto ad
applicazioni abusive della norma (facilitata da una riforma sentita come miope
e insensibile al riguardo), non dobbiamo dimenticare l’imperativo al rigore
logico ed esegetico che deve presiedere l’interpretazione delle norme
giuridiche e che impone particolare rigore specie di fronte a norme sospettate
di incostituzionalità, ma che non possono essere dichiarate tali senza accurato
esame (pena la creazione di vuoti normativi, forieri di maggiori problemi e
anche pericoli!).
In
realtà, se si segue la strada del “rigore”, si potrà agevolmente constatare
come un dato abbastanza certo, che risalta in sede di esegesi delle norme, sia
proprio l’impossibilità, aldilà di ogni apparenza, di ricondurre l’azione
anti-licenziamento ex. art. 18.04°comma l. 300/1970 ad una forma di actio doli. Impedisce questo esito la
semplice ed evidente constatazione che tale azione verte sull’allegazione di un
classico “elemento soggettivo”, mentre invece l’art. 18.04°comma verte su
“elementi oggettivi”. In questo senso, l’espressione “fatti”, “condotte” (pur
come vedremo di non facile interpretazione e classificazione, nonostante le
apparenze) riveste un’importantissima e pacifica funzione di “delimitazione in
negativo” tra l’azione ex. art.18.04°comma e l’azione ex. art. 18.01°comma.
Questa
constatazione mi permette di liquidare velocemente un filone interpretativo di
VALLEBONA, PIZZUTI, PROSPERETTI[4]
(dalle conseguenze applicative interessanti, ma purtroppo non rigoroso) che
fonda i casi di “ingiustificatezza qualificata” ex. commi 04-07 sulla
tipizzazione di condotte poste in essere in mala fede dal Datore a danno del
Lavoratore: di modo che, ogni qualvolta ricorra un licenziamento per “addebiti
insufficienti” esso deve ritenersi assoggettato alla “reintegra attenuata”.
Aldilà degli effetti meritevoli che questa tesi determina potenzialmente in
punto di giustizia sostanziale, una configurazione simile dell’azione ex. art.
18.04°comma non è accettabile: il rilievo dato all’esame del dolo e
all’intenzione del Datore non appare suffragato (come spiegato) dalla lettera
(semmai rilevante ex art. 18.01°comma), che si limita a cesellare casistiche
“oggettive” più circoscritte. Senza contare le inefficienze e le rilevanti
scomodità che ne deriverebbero in punto di operatività concreta delle tutele, come
capita quando, in punto di prova del dolo, si calca molto sul cd “dolo
specifico” o “motivo individuale di dolo” che sconfinano in improprie
“eticizzazioni” dell’azione giudiziaria (ricordiamo i casi della prova dell’
“ingiusto profitto” nei reati penali contro il patrimonio).
Più
acutamente, poi, una parte della dottrina (Avv. CESTER[5]) ha
rilevato la chiara impossibilità di assimilare tout court all’ “insussistenza del fatto” etc., ossia i requisiti
di invalidazione del licenziamento ex. art. 18.04°comma l. 300/1970, a condotte
“fraudolente” più tipicamente riconducibili alla fattispecie tradizionale di
“negozio giuridico in frode alla legge” o del “motivo illecito determinante”,
tracciate invece dal comma 01 dell’art. 18. Ad esempio, il licenziamento disciplinare
disposto a carico di un Lavoratore che “è andato a prendere un caffè”, per
farsi apprezzare come “licenziamento fraudolento”, non potrebbe essere condotto
solo sui canoni classici di indagine della illegittimità del licenziamento ex.
art. 07 l. 300/1970, ma sul piano della “frode” in senso tecnico: si dovrebbe
cioè provare che il Datore abbia usato un negozio giuridico in sé lecito per
una finalità “nascosta” fraudolenta. Il che, come ognuno può vedere, non è il
caso di tale licenziamento disciplinare illegittimo! Dovere di completezza
esige, però, di precisare che, ove la Parte riesca a dimostrare che il
licenziamento sia comminato in un contesto di “estorsione ambientale”, lì cade
sicuramente la reintegra ex. art. 18.01°comma[6]. Ma
su questo diremo più avanti!
4)
Quale
“fatto” passibile di reintegra? “Fatto materiale” o “Fatto giuridico”?
Chiarito
che il capitolo delle tutele ex art. 18.04°comma l. 300/1970 è qualcosa di radicalmente
diverso e distinto dall’actio doli,
non abbiamo ancora chiarito gli autentici termini della tutela offerta in parte qua dalla riforma Monti-Fornero,
né abbiamo risposto ai dubbi della dottrina e di quella parte del mondo della
Giustizia che chiede una ragionevole tutela contro i licenziamenti “abusivi”.
Il
primo step da cui partire (anche per
ragioni temporali) è la delimitazione dell’espressione “fatto” utilizzata nel
corpo dell’art. 18.04°comma l. 300/1970 e dalla elegante controversia che ha
animato largamente la disputa della dottrina e della giurisprudenza sull’art.
18.04°comma: il fatto ‘insussistente’ deve essere inteso come “fatto materiale”
o come “fatto giuridico”?
E’
importante ricordare che il dibattito prende le mosse dalla Autorevole quanto
problematica ricostruzione offerta dall’Avv. MARESCA, il quale aveva
compendiato la summa divisio tra
comma 04 e 05 dell’art. 18 riformato nella circostanza che l’uno accordava la
tutela reintegratoria a “fatti” colti nella loro materialità; l’altro accorda
la tutela indennitaria ad eventi di “inadempimento”. Una ricostruzione sulla
quale hanno subito iniziato a fioccare critiche e disquisizioni demolitorie
(specie le ironie sui fatti … materiali), ma che in realtà ha ispirato i
commentatori molto più di quanto essi ammettano, per i notevoli spunti e
stimoli offerti per una rilettura “equitativa” del nuovo art. 18, molto sentita
dagli interpreti.
Questa
dottrina, pur criticata e forse incompresa (perché presa alla lettera!) ha
trovato comunque un importante sviluppo nella molto commentata sentenza del
Tribunale di Bologna 15/10/2012, che molto ha influenzato gli interpreti.
A
questi fini, sarà importante ricordare che tale disputa, apparentemente inutile
e accademica, è in realtà densa di pieghe e risvolti problematici in sede
applicativa, come avremo modo di verificare successivamente: in particolare, il
discrimine “fatto giuridico/materiale” è divenuto un elemento invocato da molta
parte della dottrina come “elemento specializzante” tra comma 04 (di cui si
suppone l’accezione “materiale” di “fatto”) e comma 05 (di cui si suppone la
rilevanza del “fatto giuridico”).
Valga
per tutti a questi fini, il già citato monito di LUCCHETTI:
In altri termini, sotto il profilo sistematico, ci si
chiede se il fatto contestato coinvolga o meno il momento valutativo e se, di
conseguenza, la tutela reintegratoria venga accordata nelle sole ipotesi in cui
non sussista in sé il fatto materiale contestato, ovvero se possa essere
accordata anche laddove il fatto materiale, pur esistente, sia stato valutato
in maniera eccessivamente rigorosa dal Datore di Lavoro in sede disciplinare [l’Autore
si riferisce all’interpretazione del “fatto” ex. art. 18.04°comma come “fatto
giuridico”, NdA].
Anzitutto, se è vero, come vero sembra, che
l’insussistenza del fatto è ipotesi di ingiustificatezza qualificata, essa non
può essere oggetto di interpretazione analogica o estensiva: su questi
presupposti, si faticherebbe non poco ad attribuire alla parola ‘fatto’ il
significato di ‘gravità’.
Inoltre, da un punto di vista
sistematico, arricchire la fattispecie dell’ “insussistenza del fatto
contestato” di una dimensione valutativa significherebbe svuotare, sino a
sguarnire di senso, le “altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del
giustificato motivo soggettivo o della giusta causa” per le quali è accordata
una tutela indennitaria: ed anzi, a ben vedere, questa categoria residuale (e
ripetesi, generale) sembra esistere proprio per regolare le ipotesi in cui il
fatto sussista, ma sia stato troppo ferocemente valutato in sede disciplinare.
CAMALLERI[7] e
CERRETA[8] sono
stati tra i più classici e coerenti Autori che, partendo dalla definizione di
“insussistenza del fatto contestato” e muovendo (come vedremo erroneamente) da
una critica a MARESCA[9] e
alla sua teoria della cd “inesistenza materiale”, hanno denunciato come incoerente
e aberrante (sul piano della “giustizia sostanziale”) tale “specializzazione”
di tutele (reintegra e indennitaria).
Sulla scia
delle prime pronunce giurisprudenziali (e accogliendo gli esiti interpretativi
della già citata sentenza di Bologna di ottobre 2012), tali Autori, cioè, sono partiti
da un approfondimento dell’espressione “fatto” ex. art. 18.04°comma l. 300/1970
in tutte le possibili sfumature semantiche e pratiche. Un tentativo, però, come
vedremo presto, che, pur generoso e dottrinalmente denso, non è sempre appagante
sul piano della coerenza interpretativa (e di quella che in gergo si denomina
“giustizia formale”).
CAMALLERI, in
particolare, giunge a compendiare nella fattispecie ex comma 04 queste
casistiche:
a) Fatto
materiale inesistente;
b) Fatto
materiale esistente, ma non commesso dal Lavoratore;
c) Fatto
materiale esistente, commesso dal Lavoratore, ma giustificato;
d) Fatto
materiale esistente, ma commesso dal Lavoratore senza colpa;
e) Fatto
materiale esistente, commesso dal Lavoratore, ma non grave ex. art. 2106 del Codice Civile;
f) Fatto
materiale esistente, commesso dal Lavoratore, ma privo di rilevanza
disciplinare.
Ritenute
queste fattispecie concrete un “di cui” dell’art. 03 l. 604/1966 che codifica
come causa di inadempimento il carattere “notevole” e “grave” del medesimo, il
Ns. Autore finisce per compendiare in una complessiva tutela reintegratoria tutti i casi di licenziamenti
disciplinari comminati per fatti non gravi[10].
Come
presupposto di questa ricostruzione, gli Autori deducono logicamente che il
comma 04 dell’art. 18, quando si riferisce al “fatto”, rinvii da un lato alle
usuali nozioni ricostruibili trasversalmente ex. art. 2043 Codice Civile e ai sensi del vigente Codice Penale.
Emblematico
di questo approccio ricostruttivo il seguente passaggio:
“Insussistenza
del fatto, nel lessico dell’art. 18 novellato è espressione ellittica,
perché esso comprende almeno anche le formule assolutorie de ‘il fatto non
costituisce reato’ e ‘l’imputato non lo ha commesso’”.
Su
questa scia, muovendo dal medesimo presupposto di un uso “scientifico” e
tecnico delle parole impiegate dal legislatore, CERRETA giunge a dire.
“(…) L’insussistenza del fatto si
configura, innanzitutto, allorché non sussistano in assoluto la condotta,
l’evento e il nesso di causalità (o anche solo la condotta di pericolo), e
inoltre nelle ipotesi in cui il Lavoratore incolpato non abbia commesso la
condotta, o la abbia commessa senza coscienza e volontà. Insomma, bisogna
muovere dalle qualificazioni assolutorie del Codice di Procedura Penale per
metterle a confronto con la categoria dell’ “inesistenza giuridica”, onde è
possibile tener conto non solo delle fattispecie di assoluzione ‘il fatto non
sussiste’ (alias, insussistenza
oggettiva della condotta), ma pure di quelle finitime perché ‘l’imputato non ha
commesso il fatto’, e perché il ‘reato [nel Ns. caso, mutatis mutandis
l’inadempimento] è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per
un’altra ragione (art. 530.01-02°comma).
Complice
la sentenza 15/10/2012 del Tribunale di Bologna, su questa scia del “fatto
giuridico” si sono si sono incamminati molti altri Autori, che qui brevemente
accenneremo.
Innanzitutto, PERULLI[11] che,
prendendo le mosse dal dictum
“precursore” contenuto in Tribunale di Bologna del 15/10/2012, così argomenta:
Il Giudice ha espressamente affermato che il novellato
art. 18, parlando di ‘fatto’, fa necessariamente riferimento al ‘fatto
giuridico’, non al ‘fatto materiale’. (…) E’ evidente che il giudizio di inesistenza
qui non ha nulla a che vedere con la constatazione fenomenologia del
non-essere-del-fatto, ma con la sua manchevole sussunzione nella fattispecie qualificata dalla norma
valutante, cioè l’art. 03 l. 604/1966.
Di qui, l’importante
deduzione:
Invero, per fondare il licenziamento, il fatto, prima
di essere esistente, deve essere pertinente e inerente alla struttura concettuale dell’enunciato normativo di cui
all’art. 03 l. 604/1966 e alle nozioni di “giusta causa” e “giustificato motivo
soggettivo” che, vale la pena di ricordare, sono rimaste invariate.
Ciò
premesso, l’Autore perviene ad integrare la fattispecie “insussistenza del
fatto contestato” ex. art. 18.04°comma nei seguenti termini:
Anche il fatto materialmente esistente, ma palesemente
insufficiente (nell’esempio, il ritardo di due minuti) configur[a] un’ipotesi
di ‘insussistenza del fatto’, con conseguente applicazione della tutela reale.
L’accoglimento
di questa prospettiva (suffragato in via di interpretazione sistematica
dall’art. 18 sul GMO) porta il Ns. Autore ad una nuova “concezione” del “fatto”
rilevante ai fini del licenziamento strutturato attorno ad una “doppia e
disgiunta concezione delle ragioni contemplate dalla fattispecie legale”:
(…) Prima quella fattuale, centrata sull’esistenza
fenomenologica del fatto, indi quella normativa, centrata sulla riconducibilità
del fatto a parametri legali tipici del GMO.
La prima valutazione, meramente fattuale, esclude in
radice la rilevanza del fatto, in quanto insussistente sul versante fenomenologico.
La seconda valutazione (tipicamente normativa) apprezza il fatto (in quanto
fenomenologicamente sussistente) e nella sua “realtà giuridica” (il fatto
fenomenologicamente sussistente, ma non integrante i requisiti del GMO).
Sempre su questo filone,
TREMOLADA[12] ipotizza che, ex. art.
18.04°comma, si possa parlare di “fatto inconsistente”, non assimilabile a
“dolo discriminatorio o di frode alla legge”:
(…) Mentre l’insussistenza del fatto
determina sempre la reintegrazione, in talune ipotesi la sussistenza del fatto
non è sufficiente ad escludere la tutela reale. Si tratta dei casi in cui il
fatto contestato sia, per così dire, “inconsistente”, nel senso che, in ragione
della sua natura o entità, appaia ictu
oculi come un mero pretesto cui il Datore è ricorso per liberarsi del
Dipendente. In questi casi, il licenziamento deve considerarsi non
semplicemente ingiustificato, bensì arbitrario. A questa categoria, possono
ascriversi esempi ipotizzati dalla dottrina come quelli del licenziamento fondato
sul fatto che il Lavoratore non ha sorriso al Datore di Lavoro al suo ingresso
in Azienda, o che il Dipendente ha assistito alla partita di calcio la domenica
o si è presentato al lavoro con un ritardo di pochi minuti.
Tutte queste ricostruzioni, se
pervengono a conclusioni uguali (l’assimilazione all’ “insussistenza del fatto
contestato” dei fatti di “minima gravità” proprio in omaggio al noto principio
equitativo del de minimis …) partono
da premesse diverse quanto al fondamento di tale assimilazione: la “frode alla
legge” (tesi già criticata e che non mette punto di essere ulteriormente
esaminata), la “gravità” del fatto (CERRETA), il “nesso di causalità”
(TREMOLADA).
A
questo fine, e per completare lo spettro delle teorie del “fatto giuridico”,
possiamo ricordare la proposta di FRANZA-POZZAGLIA, i quali ritengono di poter
dedurre l’applicabilità della reintegra attenuata, pure aldilà dell’apparente
lettera della legge, in forza di analogia
iuris.
Presupposta
l’insufficienza, a detta dei Ns., dell’art. 18.04°comma a coprire anche questa
casistica e la conseguente denuncia di una “lacuna normativa”.
Ritenendo quindi il “vuoto di
previsione” per l’evidente tranchant
formulazione dell’art. 18.04°comma che non contempla il “licenziamento per
addebiti insufficienti” tra quelli suscettibili di reintegra attenuata, i Ns.
Autori constatano l’insufficienza della previsione di cui al comma 05:
In presenza di un motivo
manifestamente insufficiente a giustificare il licenziamento, [è] comunque
preclusa l’applicazione della sola tutela indennitaria disposta dal comma 05
dell’art. 18.
Constatata questa “doppia
lacuna”, i Ns. muovono dalla necessità di ricorrere al diritto comune dei
contratti (analogia legis) il
criterio di risoluzione del vuoto:
“Invero, la soluzione può essere
ricavata dal diritto generale dei contratti, in base al quale ‘il contratto non
si può risolvere se l’inadempimento di una delle due parti ha scarsa
importanza’ (art. 1455 Codice Civile).
(…). La disposizione può … rilevare sul piano sanzionatorio in relazione a
discipline speciali suscettibili di integrazione attraverso i criteri generali
dell’ordinamento. Questo processo di integrazione – che va senz’altro escluso
quando il legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità, stabilisce
inequivocabilmente l’effetto estintivo in tutti i casi di licenziamento
ingiustificato (art. 08 l. 604/1966) – sembra, al contrario, esperibile in
presenza di una disciplina diversificata e potenzialmente contraddittoria, che,
da un lato, assegna rilevanza a condotte tipizzate e punite con sanzione
conservativa mentre dall’altro si riferisce genericamente alle “altre ipotesi”
di licenziamenti ingiustificati”.
Alla
fine, gli Autori giungono all’idea di integrare le supposte lacune dell’art.
18.04°comma, sì attraverso il diritto generale dei contratti, ma pur sempre
attraverso una ricostruzione del “fatto” in senso “giuridico” e non
“materiale”.
A
questo punto, a mò di parziale riepilogo, diventa non solo opportuno, ma anche
necessario ammonire a non ritenere questa disputa disputa meramente astratta
(tipo il “sesso degli angeli”), quanto disputa decisiva nel decidere un
determinato equilibrio del nuovo assetto dell’art. 18.04°comma.
Aderire,
infatti, ad una ricostruzione del “fatto” in senso giuridico, significa
conferire enorme rilevanza agli aspetti “valutativo-normativi” dell’illecito
disciplinare e costruire un assetto di tutele ex. art. 18.04°comma fortemente
sbilanciato sui poteri discrezionali del Giudice, il quale davvero potrebbe
dire “l’ultima parola” sulla reintegra (con effetti di incertezza del diritto
che ognuno può bene immaginare). Viceversa, aderire ad una ricostruzione del
“fatto” ex. comma 04 più aderente al “fatto materiale” significa delimitare
preventivamente i termini probatori e istruttori (gli “elementi
materiali-oggettivi”) in presenza dei quali può applicarsi la reintegra
(causalità, sussistenza del fatto etc.), lasciando la valutazione degli altri
aspetti “discrezionali” alla tutela indennitaria: con effetti in termini di certezza
del diritto e razionalizzazione delle tutele che saltano agli occhi! Così
ricondotta all’alveo pratico, la discussione è sottratta al senso di
claustrofobia in cui viene costretta la questione se posta su un terreno
concettuale. E non è poco accorto riposare su facili e comodi concettualismi,
quando tutti constatano come queste “teorizzazioni” si riflettano su una
prospettiva semplicemente “aberrante” dal punto di vista applicativo e della
“giustizia sostanziale”?
Muoviamoci,
pertanto, senza pregiudizi, e partiamo da dati che può considerarsi certamente
acquisiti. A conferma dei moniti di LUCCHETTI, è difficile negare che le tesi
fondate sulla “gravità” (ossia sul “fatto giuridico”) siano, in realtà, le più
fragili, quelle cioè che “tengono meno” dal punto di vista della “giustizia
formale” e della coerenza con la lettera dell’ordinamento giuridico.
Su
questa strada si viene a situare come un macigno l’implacabile e irriducibile
(ma coerente e lucidissima) analisi di TREMOLADA:
(…) Alla nozione di ‘fatto’ vanno ricondotti tutti gli
elementi suscettibili di accertamento da parte del Datore di Lavoro con
indagine di tipo meramente fenomenologico, in quanto tale indagine non implica
la valutazione dei profili giuridici. Quindi, per ‘fatto’ deve intendersi non
solo il comportamento (azione/omissione), ma anche l’attribuzione di esso al
Lavoratore e, ove siano rilevanti ai fini della fattispecie disciplinare,
l’evento e il rapporto di causalità tra il comportamento e l’evento. Pertanto, non
sono riconducibili alla nozione di ‘fatto’ l’illiceità del comportamento del
Lavoratore, la sua gravità e il requisito della colpevolezza (corsivo e
nerettatura, nostra, NdA).
Certo,
dal punto di vista logico, e sul versante della cd “giustizia formale”, questa affermazione
non fa una grinza
Presupporre,
infatti, nell’espressione “fatto contestato” ex. art. 18.04°comma la “gravità”,
ovvero presupporre nella dizione “fatto” ivi adoperata un rinvio ad elementi
normativi e fortemente valutativi della fattispecie è conseguenza poco
giustificabile sul piano della coerenza dell’interpretazione letterale (e
conseguentemente, del diritto positivo). La norma, di per sé stessa formulata,
infatti, appare più propriamente rinviare ad elementi “materiali”, non
“giuridici” ed appare di per sé stessa più compatibile con un assetto di
“fatto” inteso in senso “materiale”, non “giuridico”. Di qui, l’enorme
problematicità di fondare ogni interpretazione “correttiva” del comma 04
dell’art. 18 (“fatto non contestato”) su un solo requisito “normativo” quale la
“gravità del fatto” (come per ammissione, peraltro, coerente degli stessi
Autori).
Ma, se
possibile, c’è di più. Parlare di “gravità” significa, infatti, rinviare ad una
nozione derivante ex. art. 03 l. 604/1966, che di fatto non trova un riscontro
nelle partizioni classiche del fatto illecito. E questa constatazione si lascia
immediatamente apprezzare solo che si consideri proprio la normale struttura
degli illeciti disciplinari, cui del resto, senza ombra di dubbio, si riferisce
il tenore stesso del comma 04 dell’art. 18.
L’illecito
disciplinare, cioè, lungi dall’essere accostabile sic et simpliciter alle forme tipiche dell’illecito civile e
penale, è qualcosa di mobile e dai labili confini: pensiamo, ad esempio, al
licenziamento disciplinare che vi si legittima non tanto a fronte di fatti
specifici connotati obiettivamente per “gravità” (pensiamo al caso del furto
per modico valore), ma in forza di clausole generali come “proporzionalità”,
“meritevolezza” etc. declinate dalla giurisprudenza che è nata sul vigore
dell’art. 07 l. 300/1970. Particolarità che, come apprezzato con grande
competenza da molta dottrina lavoristica, si connette alle peculiare realtà del
procedimento disciplinare, come già abbozzato dall’art. 2106 del Codice Civile, e in connessione con
l’art. 1455 del Codice Civile[13].
In questo
senso, cioè, la condotta grave si lascia apprezzare in sé stessa, se essa è
valutata dal Datore di Lavoro (nell’ambito della sua insindacabile competenza
organizzativa) come “recuperabile” o “non lesiva del rapporto fiduciario” in
concreto: del resto, versiamo pur sempre nell’ambito del lavoro subordinato,
dove è la “continuità funzionale-materiale” della prestazione lavorativa (in
funzione dell’interesse dell’impresa) la misura principe dell’adempimento.
Di qui,
situazioni non molto concepibili nella logica dell’illecito civile e penale:
es. il furto di “modico valore” può non essere decisivo ai fini del
licenziamento, ove ad esempio risulti che l’Azienda ha tollerato certe forme di
sottrazione, con ciò manifestando un contegno di affidamento sulla loro
liceità. Ovvero la sottrazione di somme, che, se punita una tantum da un’Azienda, e non a fronte di una repressione
costante e metodica può incidere sfavorevolmente in capo all’Azienda per la valutazione
della “gravità” della condotta ai fini del licenziamento. “Gravità” che, lungi
dall’essere apprezzabile in termini obiettivi (pensiamo alla teoria dei “beni
giuridici” concepita per i reati che attentano a vita, onore etc.), si atteggia
in modo del tutto peculiare e va declinata in modi specialissimi.
Ce ne è
abbastanza, nonostante i tenaci sforzi di questi Autori, per escludere ogni
sovrapponibilità tra “fatto ex. art. 18.04°comma” e “fatto ex. art. 2043 C.C.”
(in nome di comprensibili esigenze di “coerenza dell’ordinamento” e di
conciliazione tra “giustizia sostanziale” e “giustizia formale”). Viceversa, tale
specificità dell’illecito disciplinare, in CERRETA-CAMALLERI viene ignorata a
causa del condizionante presupposto (erroneo, come si è visto) di considerare
categorie come “fatto”/”inadempimento” come fossero fattispecie fungibili, senza
avvedersi di quanto questa sovrapposizione risulti largamente forzata!
Da
ultimo, sulla strada (già impervia) di CERRETA e CAMALLERI si frappone un’altra
rilevante aporia di ordine formale: il comma 05 dell’art. 18; comma di cui,
concretamente, nessuno dei due riesce a giustificarne la ragione e la presenza.
In effetti, la
ricostruzione offerta dagli Autori al comma 04 dell’art. 18, molto generale e onnicomprensiva,
in riferimento a tutte le fattispecie di “licenziamenti per giusta causa e
giustificato motivo oggettivo”, non permette importanti appigli per
giustificare l’esistenza del comma 05 (che pure è riferito alla stessa nomenclatura). Inoltre, c’è un dato
testuale che fortemente condiziona: visto che il riferimento a “giusta causa” e
“giustificato motivo oggettivo” è compendiato nel comma 05, senza
determinazione di casi (a differenza del comma 04 che identifica casiste
specifiche “insussistenza del fatto” etc.), come non concludere che il comma 05
per la sua connotazione onnicomprensiva sia la fattispecie generale (tutela
indennitaria), e che tale non sia il comma 04 (tutela reintegratoria)? Gli
Autori non riescono ad opporre argomentazioni convincenti a questa evidenza!
Obiezione,
quest’ultima, molto più importante e decisiva di quanto si creda, in quanto
l’argomento dell’interpretatio abrogans
legittima un’importante deduzione logica: se cioè è certo che il comma 05, nel
riprendere le nozioni “giusta causa”/”giustificato motivo soggettivo”, si rifà
all’art. 03 l. 604/1966, ne deriva in modo assolutamente implacabile
l’impossibilità (logica!) di presupporre nel dettato legislativo positivo una
nozione di “fatto” congruente con quella di “fatto giuridico” proposta da molti
Autori. Se, infatti, il legislatore avesse aderito a questa impostazione, gli
sarebbe bastato richiamare, a mo di clausole generali, le nozioni di “giusta
causa”/”giustificato motivo soggettivo” e l’art. 03 l. 604/1966, in fondo già
sufficientemente caratterizzabili in questo senso. Invece, il legislatore ha
fatto di più: oltre a richiamare nel comma 05 tali nozioni, nel comma 04 ha
parlato di “fatto”. Visto che ragioni di economia interpretativa ci portano ad
escludere che il 04°comma, utilizzando l’espressione “fatto”, abbia operato un
rinvio ad un generico “fatto giuridico”, ne discende, per esclusione,
l’assoluta plausibilità di ritenere incorporata in questa nozione di “fatto”
una nozione di “fatto materiale”.
Comunque, su basi
esegetiche e logiche tanto fragili, è ben difficile portare avanti
efficacemente la contestazione di quella che al momento appare come
l’interpretazione più ottusa della delimitazione tra comma 04-05 dell’art. 18,
che “specializza” le tutele individuando la “reintegra” per i “fatti materiali
non sussistenti” e la tutela indennitaria per i fatti la cui gravità non sia
rilevante sul versante normativo.
Alla fine, su
queste basi non si è ancora pervenuti all’interpretazione riequilibratrice (da
tutti auspicata) del nuovo articolo 18: con basi esegetiche e testuali così insufficienti,
infatti, non si può pervenire ad applicare un rimedio, la reintegra, cui è
certamente da riconoscere valenza “tassativa”, in assenza di indicazioni
legislative chiare ed espresse.
Detto
questo, urge considerare un altro aspetto.
La
posizione di FRANZA-POZZAGLIA[14]
costituisce un’utile occasione per indurre un’adeguata problematizzazione ad un
tema ricorrente nella discussione dell’art. 18.04°comma: l’idea che tale
disposto sia affetto da “lacuna” (nella specie, l’ “insufficiente gravità del
fatto”). In questo senso, la posizione ricorrente è quella di chi ritiene che i
“fatti manifestamente insufficienti” per fondare un licenziamento non siano
contemplati nell’art. 18.04°comma tra le previsioni che danno titolo alla
reintegra e ritengono, in nome di esigenze equitative, di forzare l’espressione
“fatto contestato”, presupponendo nella dizione legale solo il “fatto
materiale”.
A guardarci
bene, però, ragionare di lacuna in parte
qua è una posizione pregiudiziale, che muove dalla posizione di chi non ha
sufficientemente considerato il diritto positivo e le possibilità operative e
di significato che esso presenta. Urge, anche in questo senso, un approccio più
lineare e più circostanziato.
Innanzitutto,
c’è un dato acquisito: nonostante le apparenze, la constatazione che il testo
ex. art. 18.04°comma, quando si riferisce al “fatto”, ne presupponga la valenza
di “fatto materiale”.
Ma
cosa significa, agli effetti pratici ed operativi, “fatto materiale”. Significa
che il fatto vi è compendiato nella valutazione della “sussistenza” e della sua
“causalità” rispetto al licenziamento: in questo senso, per ottenere la
reintegra, la parte deve allegare che il fatto addebitato appare manifestamente
non connesso con il licenziamento.
A
questo riguardo, sulla “causalità” ha scritto parole scolpite TREMOLADA:
La circostanza che il fatto addotto
a giustificazione del licenziamento sia ‘inconsistente’ e abbia costituito un
mero pretesto per far cessare il rapporto di lavoro significa che tale fatto
rappresenta la causa solo apparente del recesso, non quella reale. Difetta,
quindi, il nesso di causalità tra il fatto e il licenziamento, la cui
esistenza, a ben vedere, è presupposta dal comma in esame, quale condizione
perché possa attribuirsi rilievo alla sussistenza del fatto, al fine di
escludere l’applicazione del regime della reintegrazione, previsto per il caso
di insussistenza del fatto medesimo. Infatti, a tal fine, vale sì
l’accertamento dell'esistenza del fatto contestato, ma in quanto esso abbia
effettivamente determinato il recesso. In quest’ottica il fatto, pur
sussistente, ma privo di effettivo rapporto, è come se non esistesse al fine
dell’applicazione del regime della reintegrazione previsto dal comma 04
dell’art. 18.
Non
potrebbero esserci parole più chiare.
Da un certo
punto di vista, il richiamo al “principio di causalità” può essere invocato
come correttivo alle obiezioni di LUCCHETTI che denuncia il rischio che
un’eccessiva discrezionalità interpretativa sui confini tra commi 04 e 04
dell’art. 18 si risolva in un fallimento della riforma. Aderendo a questa
ricostruzione, del resto, non si può negare che l’art. 18.04°comma sulla
reintegra attenuata guadagna molto in termini di razionalità operativa.
Infatti,
specie declinata nei termini della “causalità” come sopra, non si può negare
che anche la problematica della “insufficiente gravità del licenziamento”
ritrovi una dignità applicativa che non si può trascurare: se riferirsi a
questa dimensione della “gravità” sic et
simpliciter nella valutazione dell’illegittimità del licenziamento può
effettivamente determinare alcuni problemi, per la caratteristica valenza
“normativa” di tale nozione e per le applicazioni discrezionali cui può dare
luogo da parte del Giudice, resta comunque che, declinati sotto la specie di un
elemento tipicamente materiale e verificabile come la “causalità”, finiscano
per essere ricondotti alla “reintegra attenuata” ex comma 04 tutti quei
comportamenti, che, pur dotati di consistenza empirica, appaiano privi di
qualunque apparente e socialmente apprezzabile “causalità offensiva”.
In
questo senso, può considerarsi soggetto alla reintegra ex comma 04 il caso del
licenziamento comminato dal Dipendente che non abbia sorriso al Datore, ovvero
tutti quei casi in cui il licenziamento per giusta causa sia basato su un
addebito “manifestamente sproporzionato” tale da integrare il difetto di
“causalità” tra addebito e licenziamento ex. art. 03 l. 604/1966 ed è tale da
rientrare nell’ambito dei “fatti insussistenti” meritevoli di reintegra.
Allo stesso
modo vi sarebbero condotti quei casi in cui l’inadempimento contrattuale sia
tale da non ledere la continuità del rapporto di lavoro (ad esempio, un
episodio isolato di rissa, cui il Dipendente sia comunque stato “provocato”).
Queste
considerazioni si impongono anche per lo specialissimo significato
tecnico-giuridico che deve assumere la nozione di inadempimento nello
specialissimo rapporto di durata qual è il lavoro subordinato, il quale, anche
ex. art. 1455 Codice Civile, in
questo senso deve essere apprezzato[15] come
elemento tale da escludere la sussistenza di un estrema ratio di licenziamento
(si potrebbe dire una “non necessità del licenziamento”).
Ed è
importante rimarcare, a questo punto, come sia poco rilevante considerare se la
condotta sia stata contemplata o meno dal CCNL come passibile di sanzione
conservativa in sede di procedura disciplinare, radicandosi la tutela
reintegratoria attenuata per “addebiti palesemente sproporzionati” nel corpo
della fattispecie ex. art. 18.04°comma (“insussistenza del fatto contestato”).
Per questa via, pertanto, si verrebbe ad eliminare qualunque sensazione di
lacuna, di vuoto applicativo, diversamente sempre denunciata dagli Autori.
In
questo senso, può ritenersi privo di qualunque pregio il tentativo di sradicare
dal giudizio di inadempimento ex. art. 03 l.604/1966 la sanzione reintegratoria
ex. art. 18.04°comma:
Diverso è il caso in cui il fatto
contestato integri inadempimento contrattuale: in tal caso, quand’anche
l’inadempimento fosse lieve e comunque di gravità non tale da giustificare il
licenziamento, ratio e lettera della
norma vietano di comminare la reintegrazione e impongono la sanzione
indennitaria.
Questa
tesi (che chiaramente tenta di operare una delimitazione, altrimenti
impossibile, tra comma 04 e 05 dell’art. 18) non può convincere: ammettere in
casi di “inadempimenti lievi” la tutela indennitaria significherebbe
determinare un assetto costituzionalmente illegittimo dell’art. 18.04-05°comma.
Insomma, la
reintegra ex. art. 18.04°comma o si fonda su una nozione di “inadempimento” ex.
art. 03 cit., oppure non ha alcun senso!
E in questo
senso, abbiamo più di un argomento da spendere.
Innanzitutto,
il rapporto art. 18.04°comma l.300/1970 (riformato dalla l. 92/2012) e l’art.
03 l. 604/1966[16]! E’ indubbio che se “il
fatto non sussiste”, lì non c’è adempimento ovvero “inadempimento notevole” ex.
art. 03 cit. e c’è, pertanto, reintegra attenuata. Ma è altrettanto evidente
che escludere la reintegra per “addebiti insufficienti”, in quanto non previsti
dal Codice Disciplinare e dal CCNL come meritevoli di licenziamento, determinerebbe
una patente disparità di trattamento all’interno del medesimo comma 04 e un
conclamato assetto di illegittimità costituzionale! Giudizio di
incostituzionalità per violazione dell’art. 03 Cost. che trova facilmente il
suo pendant nell’art. 03 l. 604/1966
che, a questi fini, non potrebbe non essere invocato come tertium comparationis!
A
questo punto, data per presupposta all’interno dell’espressione “insussistenza
del fatto contestato” una nozione di “inadempimento notevole/grave”, questa non
può che acquisire il valore di una “clausola generale” per radicare nella
reintegra tutti i casi di conclamata assenza di inadempimento “grave”, sia pure
a fronte di lievi infrazioni.
La
soluzione verrebbe quindi rimessa all’accertamento della “catena causale” tra
“fatto” e “licenziamento”: più questa è “corta” e più questa è linearmente
ricostruibile (nel senso di evidenziare l’assenza di giustificazione causale
del licenziamento), lì si applicherebbe la reintegra; viceversa, più questa
linea sarebbe “lasca”, più problematica sarebbe la prova dell’illegittimità del
licenziamento e lì attivabile la tutela indennitaria. Senza bisogno di
ricorrere a schematizzazione complesse tipo “Fatto grave ma senza sanzione
conservativa” e simili, si troverebbe una prima (e sottolineamo prima), ma
coerente divisio tra commi 04-05, in
relazione al grado “prognostico” di certezza processuale del “fatto”.
Di
tale principio, il riferimento al requisito dell’ “insussistenza del fatto
contestato” costituirebbe “rivestimento tecnico” confezionato dal legislatore
per conferire al Giudice una regola di giudizio (oggetto di specifico onere
probatorio del Lavoratore) ai fini della reintegra. Specifica questa necessaria,
come vedremo, perché l’applicazione delle sanzioni al licenziamento
disciplinare è operazione complessa e articolata: di qui, l’opportunità di
criteri normativi che definiscano tale discrezionalità ( come in vari punti
suggerito dal Dr. VIDIRI cit.). Ma di questo parleremo più diffusamente avanti,
quando giungeremo ad una più completa e diffusa spiegazione dell’art.
18.05°comma.
Qui
basterà constatare come l’assetto qui disegnato delle tutele di cui all’art.
18.04°comma contemperi con maggiore equilibrio istanze di “giustizia
sostanziale” (di sostanziale “equità” delle tutele) e di “giustizia formale”
(di aderenza al dettato legislativo). Un simile stato di cose sarà vieppiù
confermato dall’interpretazione del comma 04 dell’art. 18 in connessione con il
comma 05 che ne costituisce a tutti gli effetti un pendant, molto trascurato o frainteso dalla dottrina.
5)
Le
principali aporie della dottrina nell’interpretazione del comma 05 dell’art.
18.
Il comma 05
dell’art. 18 ha certamente dato luogo a reazioni di preoccupazione, di
indignazione, che, però, sono da leggersi anche come il riflesso di un
approccio interpretativo decisamente sciatto della dottrina. Questa sciatteria
ha fatto sì che il comma 05 dell’art. 18 sia al momento il comma più negletto
dall’interpretazione dei giuristi, all’indomani dell’entrata in vigore della
riforma Monti-Fornero dei licenziamenti.
E ciò non
aiuta ad avviarne una serena valutazione “pratica”…
L’indizio
certamente più importante e sicuro che ci fa dire di essere in presenza di
aporie non superate o comunque di analisi carenti in seno è la ricorrenza
dell’argomento della ratio legis.
In
questo senso, l’argomento della ratio
legis permette spesso alla dottrina di “integrare” l’analisi e il
ragionamento, dandovi un’apparenza di coerenza e sistematicità, anche quando
essa ne sono prive: un comodo “cappello” per coprire e salvaguardare ragioni di
“giustizia formale” quando non ve ne sono o le argomentazioni sono insufficienti
e irrisolte.
Nell’economia
del Ns. modesto lavoro (essenzialmente pratico) sui licenziamenti disciplinari,
queste considerazioni sono comunque basilari, perché la materia, di tale
complessità e complicazione, esige un approccio il più ampio possibile, che
consideri cioè se le difficoltà e le complicazioni siano di ordine “oggettivo”
(ossia derivanti dall’oggettiva complicazione della normativa), ossia di ordine
“soggettivo” (ossia indotte da carenze analitiche della dottrina). In effetti,
come vedremo molto della storia dell’art. 18 riformato dipende da sfasature e
distorsioni “create” dalla dottrina in sede di commento e analisi.
Nell’analisi
delle principali aporie registrabili presso la dottrina a fronte del comma 05
dell’art. 18, si passeranno in rassegna due ordini di Autori: quegli Autori che
invocano l’argomento della ratio legis
per denunciare/correggere una supposta lacuna nel sistema delle tutele
dell’art. 18; quegli Autori che, al contrario, cercano di enucleare “in
positivo” e in senso costruttivo una funzione del comma 05 (più spesso, perché
consapevoli che una dilatazione eccessiva del campo di applicazione del comma
04 ne determina un’abrogazione, evidentemente inammissibile in sede
interpretativa).
Ma
iniziamo con ordine.
5a) De minimis
non curat preator … Critiche.
Un filone
importante della dottrina ha argomentato l’esistenza in seno dell’art. 18 di
una grave lacuna, tale da determinare un vuoto di tutele per i casi di
licenziamenti comminati per addebiti insufficienti e ha invocato l’argomento
della ratio legis per reagire a
questa lacuna.
In
omaggio al principio “de minimis non
curat praetor” (invocato come ratio
legis principale per ovviare alla lacuna) ne sono derivati tentativi di
interpretazione correttiva, che hanno per lo più risolto la lacuna vuoi facendo
dell’azione ex. art. 18.04°comma una species
dell’actio doli applicata ai
licenziamenti disciplinari, vuoi ricorrendo ad altre species dell’actio doli
come l’azione per “abuso del diritto”.
Sull’impossibilità
di ricondurre all’actio doli il comma
04 (azione essenzialmente “oggettiva”) abbiamo già detto a sufficienza.
In questa sede,
sarà invece opportuno segnalare “cosa sta dietro” a questo modo di argomentare
e di utilizzare, nella species,
l’argomento della ratio legis del de minimis, argomento che trova molto
ascolto nella dottrina e che si presenta molto carico di potenziale influsso
sulla giurisprudenza.
Determinante, infatti, nello
sviluppo del decisivo argomento della ratio
legis, che ha consentito nel caso di specie di erigere a “modello
normativo”, è la seconda parte del comma 04 dell’art. 18. In questo senso, la
parte del comma 04 dell’art. 18, dove si prevede la reintegra in caso di
licenziamento comminato in violazione di disposizione disciplinare o collettiva
viene elevata ad esempio di una regula
iuris sottostante ad ancorare la reintegra ad un margine di sufficiente
consapevolezza, in capo al Datore, della dannosità e sproporzione del
licenziamento come sanzione disciplinare.
Una
simile operazione, per quanto sicuramente ricca di suggestioni, è però
assolutamente inconferente dal punto di vista tecnico-giuridico, in quanto, in
sé considerata, la disposizione, se rafforza indubbiamente il principio che
collega la “reintegra attenuata” ai casi di “addebiti insufficienti” di
licenziamento, manifesta altresì la funzione di collegare in parte qua il comma 04 dell’art. 18 ad una preesistente regula iuris giuslavoristica (già
contenuta nell’art. 07 l. 300/1970 e largamente enucleata dalla giurisprudenza)
della “tassatività” delle sanzioni conservative. Da un simile principio,
confezionato in senso “tipico” e “tassativo” sarebbe ben arduo dedurre una più
ampia induzione giuridica di principi generali …
Questa
sezione dell’art. 18.04°comma è stata praticamente un crocevia usato dagli
indirizzi più opposti della dottrina per fondare tesi diversamente costituite.
In questo senso, non può essere un caso che questa sezione dell’art.
18.04°comma sia stato invocata, con effetti e fondamenti opposti, sia dagli
Autori che hanno ritenuto di dedurre la rilevanza della “gravità” e della
“proporzionalità” dell’illecito disciplinare ai fini dell’art. 18.04°comma
(tesi “oggettive”), sia i fautori dell’integrazione dello stesso in nome
dell’abuso del diritto (tesi “soggettive”).
Il
problema, allora, si sposta dal testo normativo alla ricostruzione dottrinale
sottesa.
Dal
punto di vista delle “teorie oggettive” c’è poco da dire: una volta evidenziati
i rischi di un’interpretazione dell’art. 18.04°comma fondata sulla “materialità/causalità”
nei termini di cui al precedente paragrafo, e una volta accolta
un’interpretazione del “fatto contestato insussistente” tale da comprendere
anche i fatti manifestamente privi di ogni “causalità offensiva”, non c’è
bisogno di invocare “integrazioni di tutele” in sede interpretative (salvo
giustificare questa parte dell’art. 18.04°comma come “corollario” dell’art. 07
St. lav. e del principio di “tipicità” delle sanzioni disciplinari).
Più
articolato, invece, è il discorso da farsi per le cd “teorie soggettive”, che
giungono a legittimare da questa sezione dell’art. 18.04°comma un’
“integrazione” di tutele in nome dell’actio
doli a partire da una complessa ricostruzione del nuovo art. 18, articolata
nei seguenti termini:
a) La
norma applicabile di riferimento è l’art. 08 l. 604/1966 (tutela
indennitaria-obbligatoria) per casi di “ingiustificatezza semplice” del
licenziamento;
b) L’art.
18 l. 300/1970, nella riforma operata dalla l. 92/2012, circoscrive i casi di
reintegra ad ipotesi di “ingiustificatezza qualificata”;
c) Pertanto,
per i casi non contemplati dal nuovo art. 18, si applica sempre la tutela
obbligatoria.
Di qui, si
argomenta, denunciando la lacuna dell’art. 18 cit.
a) L’art.
18. 04°comma limita la reintegra attenuata a due casi: “inesistenza del fatto”,
ovvero “insufficiente gravità del medesimo” qualificato da una norma
disciplinare corredata di sanzione conservativa, ma trascura il caso di
“insufficiente gravità del fatto” non diversamente qualificato dalla
contrattazione collettiva (es. un ritardo di pochi minuti, una breve sosta per
il caffè);
b) Al
caso di “insufficiente gravità del fatto” non diversamente qualificato dalla
contrattazione collettiva, in assenza di previsione di reintegra, si deduce
l’applicazione della sanzione indennitaria.
Di questa lacuna,
nelle pagine precedenti, abbiamo potuto appurare la mera apparenza e
inconsistenza, nella parte in cui abbiamo ampiamente documentato come la “non
sufficiente gravità” del fatto addebitato, anche se non corredato di sanzione
conservativa da parte di CCNL e di Codice
Disciplinare, sia in realtà una species
del più ampio genus “insussistenza
del fatto contestato” ex. art. 18.04°comma l. 300/1970, come tale passibile di
reintegra attenuata.
Ma in questa
dottrina si ritrova una ragione più profonda e parzialmente “occulta” del
motivo per cui molta dottrina si è spinta a dilatare l’ambito dell’actio doli, nella supposizione della
lacuna.
E’ cioè
lecito e legittimo ritenere che questa dilatazione dell’actio doli (ovvero del comma 01) sia stata, più che errore, rischio
calcolato o quantomeno accettato dalla dottrina, che ha preferito, in nome di
esigenze di “giustizia sostanziale” (equità e di tutela del lavoratore),
dilatare l’area dell’actio doli,
piuttosto che avventurarsi in un’interpretazione correttiva del dettato
legislativo del comma 04, che, in quanto ritenuto tassativo (compendiando cioè
ipotesi di “ingiustificatezza qualificata”), non era ritenuto passibile di
interpretazione analogica. Un atteggiamento quindi che muove da una base
prudenziale, dettata dalla cautela fondamentale di non indurre forzature o
stravolgimenti nel delicato e fragile disegno della normativa vigente, così
come risultante dalla riforma Monti-Fornero.
Queste
complesse remore, tese a cercare un riequilibrio tra “giustizia formale” e
“giustizia sostanziale”, sono, però, destinate a perdere di consistenza, nelle
misura in cui, pur dovendosi dare atto dell’indubbio carattere generale della
tutela indennitaria in forza dell’art. 08 l. 604/1966 e del carattere
“tassativo” (ma nei termini che si vedranno…) delle ipotesi di “reintegra”, si
venga a riconoscere l’assenza di preclusioni ad una qualsivoglia
interpretazione “estensiva” della nozione “insussistenza del fatto contestato”
(anche in parallelo con il comma 06 dell’art. 18 riformato), in armonia con la
ricostruzione “materiale” da Noi proposta nelle precedenti pagine.
Viceversa, non
solo l’interpretazione logico-esegetica, ma anche il quadro di tutele che ne
discende in sede forense risulta più equilibrato ed efficace, se ricostruito in
questi termini.
In questo
senso, il Lavoratore che si senta oltraggiato da un utilizzazione abusiva del
licenziamento disciplinare (in quanto indotto da motivi futili e pretestuosi)
avrà a disposizione due rimedi e due strategie processuali: uno, la classica actio doli ex comma 01 (che però obbliga
il Lavoratore a seguire il canovaccio classico della prova dell’atto illecito,
dovendo passare l’azione per la prova dell’ “elemento oggettivo” e dell’
“elemento soggettivo” dell’illecito); l’altro, l’azione per “insussistenza del
fatto” ex comma 04, per la quale sarà sufficiente al Lavoratore allegare
l’inesistenza materiale del fatto o la menoma offensività, senza doversi
caricare del fardello di provare la colpevolezza del Datore. Nessun dubbio poi,
che, nel secondo caso, la tutela del Lavoratore ne risulti facilitata; e che
questa facilitazione sia “ben vista” e “premiata” dallo stesso legislatore è
circostanza che si coglie considerando che, ove risulti provata tale
“insussistenza del fatto”, lì senz’altro il Lavoratore ha accesso alla tutela
sommaria e semplificata del nuovo rito dei licenziamenti. In questo senso, non
può che apparire il carattere residuale della “reintegra piena” ex. comma 01
dell’actio doli sottostante, che
difficilmente potrà attingere a livello di cognizione sommaria quel grado di
determinatezza e di “evidenza” dell’insussistenza del fatto (tale da
legittimare l’accesso alla definizione del nuovo rito di licenziamento).
Stando così
le cose, si può anche apprezzare la “miopia” pratica e forense di quel filone
della dottrina che ha reagito alle supposte insufficienze della “reintegra
attenuata” ampliando la sfera dell’actio
doli: un’azione tanto complessa e delicata non avrebbe potuto compendiare
quelle esigenza di tutela rapida e semplificata, che invece il legislatore ha
palesemente perseguito con l’inaugurazione del nuovo rito di licenziamento.
5b) I tentativi di “giustificazione in
positivo” del comma 05 dell’art. 18. Rassegna.
La
convinzione che l’art. 18.04°comma fosse afflitto di lacune normative ha
contribuito non poco a fuorviare la ricostruzione del sistema delle tutele dei
licenziamenti disciplinari.
In
sede di ricostruzione dell’art. 18.04-05 comma, ci è si è baloccati nell’equivoco
di credere che i problemi ex. art. 18.04°comma nascano dalle supposte lacune
dell’articolo, quando, invece, non è vero che l’art. 18.04°comma disponga
troppo poco, il problema è che dispone troppo … Le sue previsioni sono cioè
sufficientemente ampie e onnicomprensive da togliere (potenzialmente) spazio
applicativo al comma 05, legittimandone così una strisciante abrogazione in
sede interpretativa.
E
alla fine di questa “oggettiva invadenza” del comma 04 dell’art. 18 ha
pesantemente risentito il comma 05!
I
metodi impiegati dalla dottrina per cercare di “recuperare” il comma 05
dell’art. 18 sono stati i più molteplici e in questa sede se ne darà conto:
tutti, però, caratterizzati da una straordinaria carenza di analisi e critica.
Su
un primo versante, c’è stato chi ha tentato di enucleare “in positivo” la ratio del comma 05 sulla base di
motivazioni di “ordine oggettivo”.
Innanzitutto,
CERRETA (che pure esprime ancora molti dubbi):
Stando ai dati testuali, la tutela solamente
indennitaria potrebbe essere attribuita, in base a quel criterio, qualora
sussistesse un ragionevole dubbio che, alla concreta fattispecie, si potesse
collegare una sanzione conservativa non prevista dal CCNL o dal Codice
Disciplinare, anziché il licenziamento, ovvero il ragionevole dubbio
riguardante la gravità del vulnus al vincolo fiduciario rapportato alla
tipologia delle mansioni espletate, derivante da condotte estranee al rapporto
di lavoro.
E poi CAMALLERI:
Un[a] soluzione potrebbe essere
quella di ricondurvi [alla tutela indennitaria ex. art. 18.05°comma] solo
quelle condotte che, ad un tempo, siano materialmente previste come punibili
dal Codice Disciplinare con una
sanzione conservativa ma solo fino ad un grado di gravità minore di quello
invece di quello accertato nella condotta del Lavoratore. Di una condotta i cui
effetti siano, cioè, più gravi di quelli richiesti per l’applicazione della più
alta sanzione conservativa che contempla il fatto materiale della condotta, ma
non siano abbastanza gravi da giustificare la legittimità della sanzione espulsiva.
La fattispecie si situerebbe al di fuori dell’ipotesi della insussistenza del
fatto. Resterebbero fuori ovviamente tutte quelle condotte non gravi e non
previste dal Codice Disciplinare, che
invece integrerebbero sempre l’ “insussistenza del fatto”. Se così non fosse,
in assenza di un Codice Disciplinare,
nessun licenziamento illegittimo potrebbe portare alla reintegrazione, con la
conseguenza di uniformare sotto un’unica sanzione mancanze di diversa gravità,
in palese contrasto con la norma inderogabile dell’art. 2106 del Codice Civile.
Ognuno
può rendersi conto del livello di arzigogolo descrittivo cui queste pagine
giungono e che (a mio giudizio) non giovano né all’analisi, né alla
comprensione.
Avere,
del resto, come Noi, impostato la più verosimile soluzione del problema,
radicando il comma 04 dell’art. 18 sul combinato disposto art. 03 l.604/1966 ed
artt. 1455 del Codice Civile, ossia
sul “notevole inadempimento”, determina conseguenze decisamente tranchant: o il fatto rileva una
sufficiente e adeguata “causalità offensiva” (e allora è passibile di
reintegra), oppure no, e allora lì spetta la tutela indennitaria. La soluzione
verrebbe quindi rimessa all’accertamento della “catena causale” tra “fatto” e
“licenziamento”: più questa è “corta” e più questa è linearmente ricostruibile
(nel senso di evidenziare l’assenza di giustificazione causale del
licenziamento), lì si applicherebbe la reintegra; viceversa, più questa linea
sarebbe “lasca”, più problematica sarebbe la prova dell’illegittimità del licenziamento
e lì attivabile la tutela indennitaria. Senza bisogno di ricorrere a
schematizzazione complesse tipo “Fatto grave ma senza sanzione conservativa” e
simili, si troverebbe una prima (e sottolineamo prima), ma coerente divisio tra commi 04-05, in relazione al
grado “prognostico” di certezza processuale del “fatto”.
La
Ns. soluzione appare parzialmente sovrapponibile a quella proposta da ROMEI[17], anche
se con premesse e argomentazioni per Noi inaccettabili dal punto di vista
interpretativo e tecnico-giuridico.
Cosa dice
ROMEI?
A
partire dalla considerazione (premessa di tutto) che “l’equazione tra fatto e
notevole inadempimento è tutt’altro che scontata”, partendo da una critica a
Tribunale Bologna del 15/10/2012, e avversa all’assimilazione tout court tra “fatto” ex. art.
18.04°comma e art. 03 l. 604/1966 (“notevole inadempimento”), egli conclude che
i fatti-base del licenziamento devono essere in ogni caso:
Circostanze oggettive e non
attinenti alla sfera psicologica del lavoratore, ai suoi stati soggettivi, al
nesso di proporzionalità tra fatto e sanzione. Tutti questi aspetti sono
irrilevanti ai fini dell’applicazione della sanzione della reintegrazione, e lo
sono perché la legge concede rilevanza solo al dato della sussistenza o meno
dell’adempimento. Tutto ciò che eccede l’economia di un tale giudizio, condurrà
alla comminazione della sola tutela risarcitoria.
L’Autore
riprende uno dei filoni d’analisi dei commi 04-05 dell’articolo 18, che hanno
ritenuto di fondare la distinzione applicativa rispettivamente sulla scissione
tra “fatto” e “inadempimento”. Ma più diffusamente, l’Autore (riprendendo
parzialmente MARESCA) ritiene che l’emergenza di un “inadempimento”, sia tale
da giustificare la sanzione solo indennitaria, cogliendo in questo il disegno
riformatore della Monti-Fornero.
In realtà,
questa interpretazione per la quale le condotte del Lavoratore costituenti
“fatti illeciti” siano passibili di reintegra attenuata ex comma 04 e quelle
costituenti “inadempimento” ex. comma 05 solo tutela indennitaria introducono
(come già visto nel precedente paragrafo) una differenziazione
nell’applicazione del comma 04 e in particolare del requisito dell’
“insussistenza del fatto contestato” che non si può accettare, come motivato
nel paragrafo 04, per gli evidenti e irriducibili rischi da illegittimità
costituzionale che ne discenderebbero: o il giudizio di “insussistenza del
fatto contestato”, cioè, si regge su un giudizio di “non notevole
inadempimento”, ovvero il comma 04 si presenta come palesemente
incostituzionale. Pena, la lesione
dell’elementare criterio del de minimis,
radicato negli artt. 2106 e 1445 del Codice
Civile (a loro volta radicati nell’art. 03 l. 604/1966), e che verrebbero
certamente invocati come tertium
comparationis.
Aldilà
di queste considerazioni formali, le (più giustificate) preoccupazioni di
incertezza nel diritto connesse ad un’eccessiva dilatazione del requisito della
“gravità” con ampliamento della portata dei fattori “normativi” e discrezionali
connessi nell’applicazione della normativa, verrebbero corretti aderendo ad un
filone ricostruttivo della nozione di “insussistenza del fatto contestato” (da
Noi caldeggiato) che ingloba la valutazione di evidente assenza di “causalità
nella condotta”, che riduce il piano di valutazione delle circostanze
determinanti il licenziamento.
Con
ciò, però, questo filone interpretativo, se introduce un importante spunto per
radicare la tutela indennitaria ex comma 05 in un quadro di semplificazione
delle tutele processuali per i casi dubbi (impedendo la reintegra e
introducendo così un importante disincentivo a cause troppo lunghe e
strumentali), ancora non contribuisce a mettere a fuoco il “perché” di tale
specifica previsione di tutela.
In
questo senso, una parte della dottrina ha cercato di trovare il fondamento
della tutela indennitaria ex. art. 18.05°comma sulla base di considerazioni di “ordine
soggettivo” incentrate sulla “tutela della buona fede/affidamento” del Datore.
Innanzitutto,
BETTINI[18] ha
ritenuto di enucleare nel corpo dei commi 04-05 (in analogia con il comma 06
sul GMO):
… L’intenzione del legislatore di modulare la sanzione
in base al grado di responsabilità del Datore di Lavoro che ha adottato il
recesso. Egli risponde, infatti, con una sanzione più pesante se il fatto
disciplinare (l’addebito) o quello oggettivo (la ragione produttiva o
organizzativa) è inesistente e, quindi, falsamente rappresentata. In altre
parole, le ipotesi di “ingiustificatezza qualificata” si caratterizzano per un
tratto unificante individuabile nell’assoluta pretestuosità del licenziamento,
poiché il fatto materiale che lo avrebbe dovuto giustificare si palesa del
tutto insussistente. (…). In questo quadro, anche il comportamento del Datore
di Lavoro che adduce un motivo disciplinare manifestamente sproporzionato
rispetto alla sanzione espulsiva adottata, si configura come del tutto
pretestuoso e fraudolento rispetto alla disciplina legale (art. 1344 del Codice Civile) con equiparazione
all’ipotesi di insussistenza del fatto e conseguente applicazione della tutela
reale di cui al comma 04. (…).
Su questa scia, peraltro, si
muovono anche altri Autori (PROSPERETTI), argomentando la ratio della tutela
indennitaria ex comma 05 sulla cd “buona fede”:
Utilizzando il criterio della buona,
ovvero della malafede del Datore di Lavoro possiamo distinguere il
fatto/inadempimento nella sua astratta configurazione come ipotesi di giusta
causa o giustificato motivo di licenziamento, dal fatto nella sua materialità
storica.
La concreta ricostruzione del fatto
storico può portare alla dimostrazione che, nonostante l’apparente
inadempimento in realtà questo non si sia verificato, nonostante il
coinvolgimento del Lavoratore, sicchè in buona fede il Datore di Lavoro ha
intimato il licenziamento a fronte di un fatto dallo stesso conosciuto come
idoneo a integrare un inadempimento, non si darà luogo alla reintegrazione.
Insomma, la questione va analizzata in ordine alla legittimità dei motivi che
sono alla base dell’atto unilaterale del recesso datorile e non in ordine alla
concreta condotta del Lavoratore, infatti, ragionando su quest’ultimo termine,
il problema non sembra poter trovare soluzione.
E
di qui, l’Autore ricava la seguente ricaduta applicativa:
Se, ad esempio, il Lavoratore viene licenziato per
aver partecipato ad una rissa in fabbrica, il fatto noto al Datore di Lavoro è
la partecipazione alla rissa cui segue il licenziamento; ma, nella specie, il
Giudice potrebbe accertare che il Lavoratore sia stato previamente gravemente
insultato e ritenere conseguentemente il licenziamento ingiustificato, ma ciò
non porrebbe in discussione la buona fede del Datore di Lavoro, sicchè il
Lavoratore, ancorchè ‘incolpevole’ non avrebbe diritto alla reintegra.
L’esempio citato non è del
tutto calzante. Escludere in capo al Lavoratore la tutela reintegratoria per la
partecipazione ad una rissa è conclusione legittima e accettabile, purchè si
abbia presente che la “rissa” (intesa come tafferuglio “massivo”) ben di rado
può essere valutata reazione proporzionata ad una qualsivoglia offesa arrecata.
In questo senso, la “legittima difesa” può essere invocata nel caso di specie,
a partire dal “nesso di causalità” da cui dedurre “l’insussistenza del fatto
contestato”, senza scomodare la “buona fede”. Ovvero la “rissa” può essere
scusata, se di minima entità (ossia di minima “offensività”).
Scorrendo
queste teorie, non può comunque non soccorrere un’impressione di ambiguità e
irrisolto.
Come può la
“buona fede” del Datore di Lavoro escludere la reintegra? Pare proprio una
contraddizione in termini ammettere una deroga alla reintegra sul rilievo sic et simpliciter della buona fede:
anche perché, assunta la lettura oggettiva dei presupposti applicativi della
reintegra attenuata (ex. art. 18.04°comma rileva “l’insussistenza del fatto
contestato”) assai poca rilevanza può assumere la circostanza che il
licenziamento sia stato comminato dal Datore con errore (di diritto o di
fatto): il fatto o “sussiste” (e allora il licenziamento è legittimo) o “non
sussiste” (e allora si applica la reintegra) e, allora, non si può proprio
capire in che modo possa rilevare lo stato soggettivo del Datore ad impedire
l’applicazione della reintegra!
E’
evidente che portare la ratio della
tutela indennitaria ex. art. 18.05°comma alla “buona fede” è prospettiva errata
… Salvo intendere la buona fede in altro senso …
Uno
degli Autori citati, argomentando dalla parte dell’art. 18.04°comma dove
impedisce il licenziamento disciplinare, ove il CCNL abbia disposto una
sanzione conservativa, argomenta che la modulazione delle tutele ex art.
18.04-05°comma si giustifica in funzione della tutela della certezza del
diritto del Datore: minima, ove l’ingiustificatezza del licenziamento sia
“manifesta” e conoscibile a priori
(da persona di media diligenza come si dice!), maggiore ove l’ingiustificatezza
sia più di più complesso accertamento (ROMEI, efficacemente, ma in modo
inesatto, aveva individuato il “terreno d’elezione” di quest’ultima tutela i
casi in cui fosse controversa la “proporzionalità” della condotta di infrazione
contestata).
Sia
pure con la frammentarietà e la superficialità che caratterizza molti degli
approcci qui citati al comma 05 dell’art. 18, questa modalità di intendere la ratio del comma citato ci indirizza verso
una soluzione più credibile, per quanto bisognosa di analisi e di specifiche.
Una ratio che diremmo di “economia
processuale”.
In
questo senso, molto significative sono le conclusioni di CATAUDELLA il quale
giunge (in modo brillante e ingegnoso) a ricostruire la tutela indennitaria ex.
comma 05 nei termini di “licenziamento per così dire perplesso o quasi legittimo”:
(…) Potrebbe ipotizzarsi che il
novellatore abbia voluto introdurre una sorta di temperamento alla regola
dell’onere della prova, introducendo, melius
rievocando dal processo penale, la colà sepolta ipotesi di soccombenza parziale
in caso di insufficienza o contraddittorietà della prova. Una sorta di via di
fuga per il Datore di Lavoro onesto (nel licenziare), ma sfortunato (nel
provare).
Dai citati
parziali e quasi impressionistici approcci ben poco si può trarre di
consolidato rispetto al quadro dell’art. 18.04-05°comma.
Di
qui, riteniamo maturo il momento di offrire in rassegna l’opinione di
un’Autorevole interprete, M.T. CARINCI[19], Autrice
il cui punto di vista ci è utilissimo a questi fini, proprio perché estremizza i
termini di una interpretazione del comma 04-05 dell’art. 18 ancorato a
classiche categorie “contrattuali” (e contemporaneamente molto lucido sulle
ricadute processuali), e perché, pur con molte sbavature, imposta la
risoluzione del problema in modo analitico, facendo emergere temi e aspetti
connessi, ma messi in ombra da approcci troppo sintetici basati su una rapida e
“impressionistica” scorsa della ratio
legis.
Innanzitutto,
l’Autrice identifica nella fattispecie che da titolo alla “reintegra”
(“insussistenza del fatto contestato”) la mera specifica di una fattispecie più
ampia “l’inesistenza contrattuale”: un tentativo di generalizzare la
fattispecie dell’art. 18.04°comma in termini di “nullità” per “difetto radicale
della causa” del negozio giuridico di licenziamento, in quanto comminato per
“adempimenti meno che notevoli”.
Non
starò qui a riprendere diffusamente in tutti i punti il ragionamento della
CARINCI sul “fatto insussistente” etc., cui si può contro-obiettare molti aspetti
già sollevati nel precedente paragrafo.
Il
punto di interesse sono gli aspetti procedurali e di interpretazione
sistematica offerti dall’Autrice.
E’
anzitutto da precisare che l’Autrice muove dalla constatazione che, pur
investendo il licenziamento per giusta causa ex. art. 2119 Codice Civile ed ex. art. 03 l. 604/1966 un profilo di
responsabilità contrattuale, in parziale deroga con i principi della prova
dell’inadempimento previsto dall’art. 1218 Codice
Civile, quale diritto comune dei contratti, l’ordinamento impone l’onere
della prova della “giustificatezza” del licenziamento per giusta causa in capo
al Datore di Lavoro, ai sensi della l. 604/1966. Una regola che trova
l’analogia per quei casi che il diritto comune denomina “atti illeciti” ex.
art. 2043 Codice Civile, ma che è
alla base a tutti gli effetti di una tutela (anche giudiziaria) di ordine
contrattuale (ai fini della prescrizione etc.), ma che fa capo ad un principio
cardine del negozio di licenziamento, il “principio di giustificazione”.
Ciò
premesso, l’Autrice ritiene che l’art. 18.04-05 abbia diversificato la reazione
dell’ordinamento ai licenziamenti per “giusta causa/giustificato motivo
soggettivo” graduando il disvalore dell’ingiustificatezza. Se la mancanza di
giustificazione, investe un fatto palesemente insufficiente a giustificare il
licenziamento, è prevista la reintegra; se il fatto, per quanto privo dei
requisiti della “giustificatezza” del licenziamento, ma non tale da non
riguardare un “inadempimento non notevole” sia passibile di tutela
indennitaria.
Il
ragionamento non potrebbe essere più arzigogolato, ma potrebbe essere
sintetizzato così: per motivare il modus
operandi del comma 05 dell’art. 18 con la caratteristica “resistenza alla
sanzione” del licenziamento pure ingiustificato, l’Autrice scomoda l’analogo
assetto di tutele dell’invalidità degli atti giuridici negoziali, ripartito in
nullità/inefficacia (per i casi più apparenti) e annullabilità/efficacia (per i
casi meno “appariscenti”), come noto graduati diversamente in ragione della
considerazione della tutela dell’affidamento della controparte.
Il
motivo per cui il lavoro di M.T. CARINCI si lascia apprezzare risiede nella
capacità dell’Autrice di far trasparire un argomento di enorme portata
esegetica e sistematica, sostanzialmente ignorato dalla generalità degli Autori
che si sono cimentati con il tema della tutela dal licenziamento illegittimo
post-l.92/2012, ma che, cogliendo la dimensione dell’art. 18.04-05°comma in
senso “processuale”, lascia illuminare aspetti e problemi, diversamente
invisibili.
L’art. 18.04-05 comma nel “sistema” delle
tutele contro i licenziamenti:
Andiamo
avanti con ordine e procedendo per gradi.
Innanzitutto,
sfugge a molti Autori che si sono cimentati con il comma 05 (in modo, come
visto sommario, superficiale e sbrigativo) una facile constatazione: se, come
si dice usualmente, è stata intenzione della riforma Monti-Fornero procedere ad
una mera assimilazione dei casi non previsti dal comma 05 alla tutela indennitaria,
sarebbe bastato per il legislatore non dire nulla e lasciare operare il
richiamo dell’art. 08 della l. 604/1966. Perché il legislatore ha previsto una
diversa e specifica fattispecie di tutela indennitaria?
Non
pare appagante rispondere dicendo che il legislatore ha introdotto una
disciplina meramente “di dettaglio” dell’art. 08 l. 604/1966, contenente
specifiche su mensilità di risarcimento e calcolo, essendo al riguardo stata
sufficiente una mera “novella” di quel testo (come fatto in altre circostanze).
Persuade,
invece di più, anche perché più consona a criteri di “economia interpretativa”
(ma, come vedremo oltre, anche di maggiore coerenza sistematica), ritenere che
il legislatore abbia concepito commi 04 e 05 come un tutt’uno.
Fermiamoci
un attimo, prima di andare avanti e segnaliamo come probabilmente anche in
questo caso abbia pesato, negli scadenti risultati esegetici ed applicativi sul
comma 05, una distorsione soggettiva dell’interprete: in effetti, scorrendo i
commenti della dottrina che sul punto si sono avvicendati, non può che balzare
all’occhio la scarsa attenzione e lo scarsissimo scrupolo della dottrina nel
procedere ad approfondire i nessi tra comma 04 e 05. I due commi o vengono
considerati “comparti stagni” (di cui si predica la prevalenza di uno, di
solito, il comma 05, previsione “generale”), ovvero il comma 05 è considerato
meramente residuale.
Prima
di ragionare di quello che “distingue” il comma 05 dal comma 04 ragioniamo su
quanto può invece … unire: forse effettivamente qualche risultato in più lo si
può trarre.
Senza
indulgere ad astratti concettualismi, ma anzi cercando di visualizzare questo
istituto nell’unica sede in cui esso è destinato a vivere (la sede giudiziaria)
non possiamo fare a meno di constatare che, avendo le due azioni giudiziarie
descritte nell’art. 18.04-05°comma in comune la valutazione degli “estremi del
licenziamento “per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa”, le stesse
hanno certamente in comune la causa
petendi: in questo senso, come del resto riconosciuto da tutti gli Autori,
il provvedimento di reintegra o indennitario è elemento rimesso ex post alla valutazione del Giudice, il
quale, a parità di causa pretendi
(illegittimità del licenziamento per GC/GMS) valuterà la pertinenza dei “fatti
storici” addotti per applicare l’uno rimedio (la reintegra) o meno. Ma se
queste valutazioni sono valutazioni rimesse alla valutazione del Giudice, è
certo che, sotto l’aspetto del diritto d’azione individuale, il Lavoratore
spiegherà una sola azione quando vorrà impugnare il licenziamento disciplinare
(o per giustificato motivo soggettivo) illegittimo.
Riflettiamo,
poi, su un altro aspetto.
Ciò
che obbliga il Giudice alla “reintegra” è la verifica che la causa petendi allegata dal Lavoratore per
impugnare il licenziamento corrisponda a due noti presupposti: o
“l’insussistenza del fatto contestato”, ovvero l’assenza di un “legame causale”
tra licenziamento e fatto, evento sufficientemente apprezzabile ai sensi
dell’art. 03 l. 604/1966 e dell’art. 1455 del Codice Civile.
Ma,
al punto in cui siamo arrivati, possiamo andare anche oltre e ritenere de jure et de facto dipendente
l’applicazione della tutela indennitaria (di cui al comma 05) dal comma 04, sia
pure declinato “in negativo”, ossia facendo dipendere l’applicazione della
tutela indennitaria dall’accertamento della ricorrenza “negativa” dei requisiti
di cui al comma 04.
Si
è detto, a questo riguardo, che il comma 05 compendierebbe tutti i casi in cui
non sia stato possibile giungere ad un conclusivo giudizio di “insussistenza
del fatto contestato” per la non concludenza del giudizio di
“proporzionalità”/”gravità” del licenziamento ex. art. 07 (ROMEI), rimesso a
valutazione discrezionale di “elementi normativi” della fattispecie, non dotato
dello stesso grado di “evidenza” di un semplice “fatto”. Un caso classico il
furto di materiale di sicurezza, di cui in molti casi la non legittimità del
licenziamento è stata dedotta, proprio in corrispondenza dell’impossibilità di
giungere a livello giudiziario ad un contemperamento/bilanciamento efficace
degli elementi in gioco. Opinione efficace, ma ancora abbastanza grezza, che
non tiene conto, cioè, come adeguato correttivo alla discrezionalità implicata
da “elementi normativi” possa rinvenirsi nel giudizio di “adeguatezza causale”
tra eventi e licenziamento.
In questo
senso, possiamo anche recuperare quanto abbiamo già detto nel paragrafo precedente
con riguardo alla cd “catena causale”, quando argomentavamo che la distinzione
tra comma 04 e 05 avrebbe potuto ritrovarsi nella “maggiore” o “minore”
lunghezza della “catena causale” addotta dal Lavoratore per giustificare
l’assenza di ragione e fondamento del licenziamento in termini di maggiore o
minore probabilità di verdetto di vittoria (da valutarsi “prognosticamente”).
In
questo senso, nello stesso caso di scuola (ma non troppo) del furto di
materiale di sicurezza può valutarsi (empiricamente e sulla base di dati
esistenti agli atti!) la sporadicità, la casualità, l’assenza di fine di lucro
o di danno per l’Azienda, come elementi sufficienti per valutare (sia pure in
negativo) l’assenza di necessità del licenziamento e applicare, quindi, la
reintegra attenuata ex. art. 18.04°comma l. 300/70. Ognuno può, poi, apprezzare
come, inglobando a livello di “giudizio sul fatto” questi elementi, ed
estraniandoli dal novero della “gravità” si realizzi un’operazione tutt’altro
che irrilevante sul versante giuridico e giudiziario: infatti, operando in
questi termini, si condiziona il riconoscimento giudiziario di tali elementi
all’assolvimento delle parti dell’onere della prova incombente ex. art. 2697 Codice Civile, senza ammettere
intrusioni “valutative” e “ufficiose” del Giudice! Chè allora, in questo senso, la distinzione tra il comma 05 e il comma
04 avrebbe influenza prima di tutto in ordine alla ripartizione degli oneri
probatori, escludendo la reintegra laddove la parte non riesca a fornire
essa stessa prova compiuta di “insussistenza” dei fatti di inadempimento
contestati dal Datore, escludendo quindi la tutela dove cioè sia lo stesso
Giudice a pervenire a questa valutazione di sua iniziativa (in questo caso,
dovrà applicarsi sempre e solo la tutela indennitaria).
In
questo senso, può parlarsi di tutela reintegratoria (sia pure “attenuata”), in
quanto subordinata ex. art. 18.04°comma a quella che potremmo denominare “non
soccombenza relativa” del Lavoratore, ossia all’assolvimento efficace da parte
del Lavoro dell’onere della prova ex. comma 04 relativo alla “insussistenza del
fatto contestato” etc. Laddove, al contrario, la “soccombenza relativa” del
Lavoratore a tale onere probatorio determina, pur nella persistente valutazione
di illegittimità del licenziamento per altri motivi valutati autonomamente dal
Giudice (non proporzione etc.) la comminazione di tutela solamente
indennitaria.
Sotto questo
versante, riceve maggiori lumi di conforto e di conferma la Ns. impostazione e
appare più chiaramente in luce come, ai fini dell’interpretazione anche
sistematica del comma 04, sia ben più pertinente il richiamo al “fatto
materiale”, anziché al “fatto giuridico”. E sempre sotto questa visuale, si
deve criticare (e con forza) l’opzione del Tribunale di Bologna (sentenza
15/10/2012), che, aderendo all’opzione del “fatto giuridico” per comminare la
reintegra ex. art. 18.04°comma, senza accorgersene, ha forzato (e in fondo
tradito) lo spirito della riforma. Allargando, infatti, la reintegra ad aspetti
“normativi” e “valutativi” come la “gravità” del licenziamento, ne è uscito
concretamente allargato il potere di iniziativa del Giudice nell’applicazione
della reintegra, contraddicendo il recinto di oneri probatori chiaramente
disegnato nell’articolato dei commi 04-05 dell’art. 18 (che affida al
contraddittorio sul fatto e alla “non soccombenza relativa” del Lavoratore, non
alla valutazione “officiosa” del Giudice, l’applicazione della reintegra
attenuata).
La
ricostruzione è tutt’altro che teorica e accademica!
Consideriamo
un caso classico di licenziamento nell’ambito bancario: il licenziamento per
sottrazione di denaro dei correntisti da parte di un Impiegato di Banca!
Ove, cioè, il
Lavoratore contesti il licenziamento, ma non riesca a disporre di elementi
empirici di prova concreta che suffraghino la “non sussistenza”/”lievità”
dell’inadempimento, egli non potrà accedere alla reintegra. Può darsi, però,
che, nel corso del giudizio, il Giudice riesca a ritrovare nell’esercizio dei
suoi autonomi poteri di valutazione altri elementi: es. riesca ad accertare che
la Banca aveva in passato tollerato e mai sanzionato episodi analoghi di modo
che atti simili, in passato, non erano mai stati tali da menomare il rapporto
fiduciario. Questi aspetti, che non possono più essere invocati dal Lavoratore
per rivendicare la reintegra, possono però essere utilizzati dal Giudice per
ritenere illegittimo il licenziamento, ma non tale da far scattare la
reintegra.
A
questo riguardo, un Autore come DEL CONTE[20] ha
riassunto con efficacia impari il significato pratico della tutela indennitaria
de qua:
La novella istituisce un’area di libera recedibilità
con penale accessibile dall’imprenditore grazie ad un fatto proprio.
E il fatto è che, poste così
le cose, è molto difficile dedurre l’incostituzionalità del comma 05 dell’art.
18!
(segue) Verso una riforma della
giurisprudenza sui licenziamenti disciplinari
Le potenziali
ricadute dell’art. 18.04-05 sulla prassi forense, se colte (secondo Noi,
adeguatamente) in questa direzione sono molteplici e in prospettiva molto
profonde.
In
particolare, la riforma dell’art. 18 in questo specifico punto introduce una
razionalizzazione del giudizio di legittimità del licenziamento disciplinare
che non è apprezzabile solo sotto la specie dei nuovi, particolari oneri
“probatori” e procedurali, che si vengono a determinare, ma anche in relazione
alle particolari ricadute sostanziali e, per così dire, “diffuse”.
Nella
misura in cui dobbiamo dare per scontato (pena i problemi di
irrazionalità/incostituzionalità di cui si è detto) che il comma 04 determini
l’applicazione della “reintegra” (sia pure attenuata) a casi di conclamata
“insussistenza/lievità dell’inadempimento” ex. art. 03 l. 604/1966, e nella
misura in cui il “metro” di tale valutazione processuale diventano “fatti
materiali” (allegabili/allegati dalla parte e valutati dal Giudice), dobbiamo
dedurre che la prova (a carico del Datore) dell’emergenza di condotte illecite
“strutturate” (civilmente o penalmente, ossia in “tipologie ontologiche di
offesa”) diventa elemento dirimente per escludere sempre e in ogni caso la
reintegra (e per resistere alle strategie impugnatorie del Lavoratore).
Le
ricadute applicative si lasciano pesantemente apprezzare proprio in relazione
al già citato caso del Bancario infedele. Se il bancario imposterà la
contestazione del licenziamento nei binari tradizionali, ossia facendo leva
sulla tolleranza, negligenza del Datore nella vigilanza etc. egli non potrà
solo per questo “sfangarla” e ottenere la reintegra. Per ottenere la
“reintegra” dovrà provare un quid pluris:
che il fatto “non sussiste” o non è palesemente “lieve”, e il Lavoratore
non offra circostanziata prova al riguardo, ai sensi del comma 04 dell’art. 18.
Ma difettando tali requisiti, si applicherà sempre e comunque la tutela
indennitaria. E qui, non si può fare a meno di rilevare la grande novità della
riforma: dove prima, il licenziamento poteva andare soggetto a reintegra anche
se il fatto risultava accertato, ora l’accertamento del fatto impedisce la
reintegra!
Il
meccanismo giudiziario dell’accertamento, a questo punto, non può non retroagire
sulla contrattualistica.
Non
ci vuole effettivamente molto a prevedere che, una volta che si sia consolidato
a livello giurisprudenziale il sistema ex. art. 18.04°comma, i licenziamenti
saranno “sentiti” come veramente legittimi se si conclameranno a fronte della
reazione di fatti apertamente illeciti del Lavoratore. Non si può trascurare in
questo senso l’efficacia sociale che la reintegra potrà esercitare nel senso di
rimarcare alcuni casi di licenziamento come gravi tendenzialmente in sé e per
sé, mettendo in second’ordine i criteri di bilanciamento e di valutazione usualmente
invocati ex. art. 07 l. 300/1970!
Non
c’è dubbio che su questo si giocherà l’efficacia “culturale” prima che
giuridica dell’art. 18 riformato sui licenziamenti disciplinari.
Ma
aldilà di riflessioni impegnative dal punto di vista della prospettiva e della
lunga durata, non si può trascurare che questo esito può essere ben coerente e
conseguente alla tecnica adoperata dal legislatore: nel compendiare cioè i casi di “insussistenza del fatto contestato”
come “misura” dell’inadempimento, il legislatore compie un’operazione di
primaria importanza e rilevanza applicativa, perché fissa nella “materialità”
il “rivestimento” empirico (rilevante ai fini probatori) di nozioni usualmente
astratte e generiche, rimesse a clausole generali, che se è evidentemente
destinato a reagire su espressioni come “inadempimento notevole/non notevole”
(art. 03 l. 604/1966), “misurandone” l’ambito di efficacia empirica, non può
non reagire anche sui requisiti di “proporzionalità”, “meritevolezza” ex. art.
07, se non altro in punto di fatto, ossia condizionandone la rilevanza
probatoria all’iniziativa documentale/istruttoria della Parte (il Lavoratore,
in questo caso), riducendo così (almeno ai fini della reintegra) la rilevanza
di “elementi normativi” e conseguentemente eliminando l’inserzione di
valutazioni discrezionali del Giudice.
Se
questa efficacia di “retroazione” delle espressioni “insussistenza del fatto
etc.” contenute nel comma 04 è sicuramente operante per l’art. 03 l. 604/1966,
per l’art. 07 l. 300/1970, come negare che alla stessa retroazione sia soggetto
anche un altro rilevantissimo principio civilistico ai fini dei licenziamenti
come l’art. 1455 Codice Civile? In
questo senso, si può ritenere che, ricorrendo la prova di un atto illecito del
Dipendente in costanza di rapporto di lavoro, che non rivesta i rigorosi
caratteri dell’ininfluenza manifesta ex. art. 03 l. 604/1966, lì si determina
una rottura della continuità materiale-funzionale che sorregge la ragione d’essere
del rapporto di lavoro quale rapporto di durata. In questo senso, la previsione
di una tutela indennitaria, in questi casi, non costituisce che la presa d’atto
di un rapporto che, aldilà delle forme con cui si è chiuso, nella sostanza non
può più riaprirsi per il conclamato venire meno dell’intuitu personae.
(segue): Il licenziamento disciplinare
comminato senza contraddittorio.
Ma i risultati
sono ancora più sconcertanti rispetto ad un'altra casistica usualmente
rubricata come “inefficacia” del licenziamento disciplinare, ossia il caso del
licenziamento disciplinare comminato per giusta causa, ma senza aver proceduto
alla contestazione e all’apertura della procedura disciplinare.
Il
caso è poco esplorato e Noi ne abbiamo dato solo un rapidissimo cenno.
Consideriamo
il caso del “licenziamento in tronco” del Dipendente sorpreso a rubare, per il
quale l’Azienda non abbia provveduto alla contestazione disciplinare.
Usualmente, questo caso era considerato dalla dottrina e dalle giurisprudenza
un caso di mera inefficacia del licenziamento, in quanto la sua comminazione al
di fuori della cornice dell’art. 07 l. 300/1970 bastava ad escluderne
l’efficacia espulsiva. Completava il quadro la reintegra, sufficiente a
“bloccare” per così dire in Azienda il Lavoratore.
Oggi,
con la riforma dell’art. 18, le cose non stanno più così.
Scorrendo
la lettura più pedestre e superficiale possibile del nuovo art. 18 non si può
fare a meno di notare come il licenziamento comminato con vizi formali (tra i
vizi formali è compendiato anche il mancato rispetto dell’art. 07 l. 300/70) sia
passibile di mera tutela indennitaria. Una conclusione che fa certamente
dispetto, e che ripropone le già evidenziate aporie sul comma 05 e sul connesso
uso distorto della tutela indennitaria non rispettosa del criterio del de minimis: cosicché una sanzione così
debole si presta a “monetizzare” usi del licenziamento basati su accuse
infondate e magari anche infamanti del Dipendente, cui non è data alcuna
facoltà di prova. E in effetti non mancano gli Autori che già discettano del
carattere incostituzionale in parte qua
della riforma dell’art. 18, che non pare rispettosa dei principi di tutela del
contraddittorio nel licenziamento consacrati dall’art. 07 l. 300/1970.
Senonchè
questa conclusione apparentemente tranchant
di illegittimità costituzionale passa in secondo piano, se si considera una
diversa lettura dell’art. 18: una lettura che tenga conto che le casistiche
vanno colte nello specifico paradigma “prismale” e “frammentario” già acutamente
rilevato dalla dottrina (per cui un caso, prima regolato in modo uniforme, ora
si presta ad essere valutato sotto diverse rifrazioni), a sua volta frutto di
una “rimodulazione” delle tutele anti-licenziamento prettamente pragmatica e
processuale.
In
particolare, riteniamo impossibile escludere nella fattispecie esaminata
(licenziamento in tronco del lavoratore sorpreso a rubare) il concorso di due
ordini di norme relative al nuovo art. 18: il comma 07 per gli aspetti formali
e i commi 04-05 per gli aspetti più squisitamente probatori. In altre parole,
dal punto di vista normativo, nel nuovo art. 18 si presenta in parte qua un tipico problema di
ricostruzione dei disposti secondo “specialità reciproca”.
E
basta, al riguardo, citare il comma 06 dell’art. 18, che prevede una specifica
facoltà del Lavoratore, che abbia introdotto una “domanda” di azione
anti-licenziamento per “vizi formali” di “integrare” la domanda, facendo valere
il difetto di giustificazione: nel quale caso, il Giudice potrà eventualmente
integrare la tutela (oltrechè in riferimento ai vizi formali) anche per
l’eventuale carente giustificazione del licenziamento.
Lasciamo
comunque da parte considerazioni di “giustizia formale”: importanti e dirimenti,
invece, sono le considerazioni di “giustizia sostanziale”
Se
il Lavoratore, cioè, chiede tutela per essere stato licenziato “senza prova”,
egli deve poter dimostrare al massimo grado possibile la sua innocenza e
l’insussistenza degli addebiti che gli sono attribuiti; ed è logico e coerente,
in questo senso, che allo stesso sia accordata, a questo fine, non la debole
tutela per i vizi formali ex comma 06 (meramente indennitaria), ma la tutela
massima ottenibile “la reintegra attenuata” ex. art. 18.04°comma, ove risulti
“l’insussistenza del fatto contestato”. Diversamente, la via della declaratoria
di illegittimità costituzionale sarebbe obbligata. Questa tagliola, però, la si
può agevolmente evitare, solo se si colga la complessità e articolazione
strutturale della disposizione citata.
Ma
cosa succede se il Lavoratore, che pure tenta l’azione ex. art. 18.04°comma,
fallisce e il Datore riesce a provare che il fatto è avvenuto? Certamente, si
applica la sola tutela indennitaria non ai sensi del comma 05, ma in forza del
comma 06, per esplicito disposto normativo!
Poste
le cose in questi termini, non si può comunque non constatare come la prova
relativa alla “sussistenza del fatto” anche in questo caso a disposizione del
Datore possa determinare un forte retroazione (a vantaggio di questi) nelle
procedure anti-licenziamento, anche con attenuazione delle garanzie (formali)
del contraddittorio ex. art. 07 l. 300/1970.
Ci si basi su
questa elementare considerazione.
Un
Direttore di Stabilimento scopre il Lavoratore in flagrante furto: dispone di
tutte le prove possibili a suo carico e lo licenzia in tronco. Certo, un simile
licenziamento è formalmente viziato, perché al Lavoratore non è stato concesso
il contraddittorio e certamente il Lavoratore può impugnarlo. Ma mal gliene
incoglie, se in giudizio (quindi con le piene garanzie del contraddittorio) la
sussistenza del fatto-furto viene dimostrata: con la nuova riforma, non potrà
mai avere accesso alla reintegra (salvo che dimostri la valenza discriminatoria
e persecutoria del licenziamento: actio
doli!).
L’attenuazione
dell’art. 07 l. 300/1970, specie in punto di garanzia (formale) del
contraddittorio, esiste ed è innegabile!
A questo fine,
però, non vale obiettare, per neutralizzare questo scomodo effetto del comma
04, che la “sussistenza del fatto” presupponga la sua “contestazione” a norma
dell’art. 07 l. 300/1970: la legge parla di “insussistenza del fatto
contestato”, ma senza specificare se il fatto sia stato contestato nella sede
del procedimento disciplinare o nella sede del giudizio di impugnazione.
Considerazioni esegetiche a parte, a ciò si oppone la specifica struttura della
tutela anti-licenziamento per questi specifici casi “formali” ben disegnata dal
comma 06 dell’art. 18 della l. 300/1970. Ove, cioè, il giudizio si sposti (come
inevitabile in questi casi) sulla “giustificazione del licenziamento” (e si
badi all’espressione usata dal legislatore, tesa a valorizzare gli aspetti
sostanziali, non formali-della serie “ci sia o no la giustificazione del
licenziamento, a prescindere dalla procedura”), e questi elementi di
“giustificazione” non ci siano, si applica la tutela meramente indennitaria ex.
art. 18.06°comma. Quindi, in nessun modo (diverso dall’actio doli anti-discriminatoria) può sbucare la reintegra!
La
filosofia della riforma in parte qua
è chiara ed è incisiva: la sostanza prevale sulla forma, in caso di
licenziamento disciplinare.
E
questo, ci conduce alle valutazioni finali del Ns. saggio.
Conclusione.
Le
Ns. conclusioni non possono che riprendere da dove eravamo partiti, ossia dalle
considerazioni del Dr. VIDIRI.
Corretta
e rintuzzato il pericolo di una dilatazione indebita della reintegra nella più
scomoda forma dell’actio doli per gli
“addebiti insufficienti”, e conclusa un’interpretazione dell’art. 18.04-05 più
equilibrata, , la “politica del diritto” delineata dalla riforma Monti-Fornero
in punto di licenziamenti disciplinari, pur nelle complessità e astrusità
evidenti, si lascia maggiormente evidenziare come disegno di razionalizzazione
delle tutele, nel segno di una riduzione dell’ingerenza giudiziale.
Questo
aspetto deve essere recepito in sede forense: a maggior ragione da chi, come il
Dr. VIDIRI, è sommamente preoccupato che la riforma determini un ampliamento
eccessivo della discrezionalità giudiziaria (arbitrium iudicis).
Aldilà
di specifiche casistiche e problemi pratici, ciò che deve preoccupare in sede
forense è comprendere i delicati equilibri logici, semantici e sistematici
racchiusi nei commi 04-05 dell’art. 18, autentico “crocevia critico” della
riforma. Questo “crocevia” può diventare il “triangolo delle Bermuda”
dell’Operatore Giudiziario, ma solo se l’Operatore si lascia guidare dalla
fretta, o sopravvaluta il proprio “buon senso” operativo per poter aggirare la
norma. Non illudiamoci, le complessità della norma non sono aggirabili. Ma
certo è innegabile che parte delle complessità sono di ordine “soggettivo”:
nella misura in cui si coglie il “salto di mentalità” (giuridica e operativa)
che la riforma dell’art. 18 esige in direzione della “multidimensionalità”
delle tutele e del caratteristico sistema “prismale”, vera e autentica
rivoluzione rispetto al precedente stato di cose, improntato al più rigido
“monolitismo” dell’art. 18. Già sintonizzarsi su questo ordine di idee,
significa indirizzare la gestione dell’art. 18 in parte qua in una giusta direzione.
I
primi riscontri giurisprudenziali non sono confortanti: già la sentenza
bolognese del 15/10/2012 ha mostrato come, invocando il cd “fatto giuridico”,
sia agevole annullare la policy della
riforma e dilatare la discrezionalità giudiziale. E’ opportuno, quindi, che il
dibattito continui, affinché già in sede di Appello o di Cassazione, si affermi
uno ius receptum più attento
all’autentica policy della riforma,
molto riduttiva e sfavorevole verso l’arbitrium
iudicis.
[1] Vedi, Le tutele differenziate del licenziamento illegittimo, in Rivista Italiana Diritto del Lavoro, 04,
2012.
[2] I
passi citati di GIANLUCA LUCCHETTI, sono tratti da Colloqui Giuridici del Lavoro, 01/2012, a cura di VALLEBONA alle
pagine 49-53.
[3] Le opinioni di ANGIELLO e
MOGLIA sono consultabili alle pagine 06 ss. della serie Colloqui Giuridici del Lavoro, a cura di VALLEBONA.
[4] Riportate nei Colloqui Giuridici del Lavoro, 01/12,
rispettivamente ai seguenti blocchi di pagine: 102 ss. (Sintesi), 74 ss. e 76 ss.
[5] Le opinioni dell’Avv.
CESTER sono riportate nelle pp. 23 ss. dei Colloqui
Giuridici del Lavoro, numero 01/12.
[6] Tali abusi, infatti, possono lasciarsi apprezzare come
“condotte estorsive” rilevanti dal punto di vista penale; un’eventualità resa
per altro molto agevole dalla giurisprudenza che come noto ha consolidato
(anche in sede di legittimità) la categoria della “estorsione ambientale”,
derivante da una sorta di “presunzione di violenza/minaccia” per tutte le pattuizioni
accettate o subite dal Dipendente, con menomazione dei suoi diritti. Ed è
evidente che, se calata in questa “gestione” penalistica, i margini per
quell’allargamento del “licenziamento discriminatorio/persecutorio” (passibile
di actio doli) si allargano comunque
e la sussunzione nella norma penale diventa certamente il motivo per
configurare nel caso di specie un licenziamento condotto per “motivo illecito
determinante”, quindi, passibile di reintegra.
[7] Le opinioni di CAMMALLERI
sono a p. 15 ss. di Colloqui Giuridici
del Lavoro, 01/2012.
[8] Le opinioni di CERRETA
sono a p. 20 ss di Colloqui Giuridici del
Lavoro, 01/2012.
[9] MARESCA, Il nuovo regime sanzionatorio del
licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 dello Statuto dei
Lavoratori, in Rivista Italiana di
Diritto del Lavoro, 2012, 449.
[10] E’
importante sottolineare questo passaggio, perché in base a questa premessa, è
possibile al Ns. Autore dedurre (in controtendenza con gli Autori considerati)
l’inutilità di ricorrere, per estendere la reintegra ex. art. 18.04°comma per
“inadempienze lievi”, all’argomento dell’interpretazione analogica della
seconda parte sulle cd “sanzioni conservative”.
[11] Le opinioni di PERULLI
sono a p. 68 ss di Colloqui Giuridici del
Lavoro, 01/2012.
[12] Le opinioni di TREMOLADA
sono a p. 89 ss di Colloqui Giuridici del
Lavoro, 01/2012.
[13]
Ricordiamo che, in forza di tali articoli, si disconosce da dottrina e
giurisprudenza pressocchè unanimi la risoluzione per inadempimento (e, quindi,
il licenziamento disciplinare) “se l’inadempimento di una delle parti ha avuto
scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse l’una dell’altra”
[14] Le opinioni di GABRIELE
FRANZA e PIETRO POZZAGLIA sono a p. 35 ss di Colloqui Giuridici del Lavoro, 01/2012.
[15] Sulle potenzialità della
nozione di “causalità” per risolvere le antinomie del comma 04 dell’art. 18 si
vedano anche le lucide considerazioni di CESTER cit.
[16] Sul
punto, vedi le osservazioni di TURSI, Colloqui
Giuridici del Lavoro, 01/2012 pp.93: “La norma è formulata in maniera ellittica,
perché trascura di precisare che il fatto contestato deve pur sempre integrare
una fattispecie di inadempimento contrattuale: chè, altrimenti, perfino un
fatto in sé lecito (per esempio, non sorridere ai colleghi), se sussistente,
potrebbe comportare, per il solo fatto di essere stato contestato, l’indennizzo
in luogo della reintegrazione. Ammettere il contrario, equivarrebbe a ritenere
che il legislatore abbia disciplinato non tanto un’ipotesi di licenziamento
ingiustificato con tutela indennitaria, ma un licenziamento libero accompagnato
da un sostegno economico di carattere non sanzionatorio”. Meno convince
l’Autore quando ammette la tutela indennitaria per i casi “lievi”, ma comunque
costituenti inadempimento.
[17] Vedi ROMEI, La prima ordinanza sul nuovo art. 18 della
l. 300/1970: tanto rumore per nulla? In Rivista
Italiana di diritto del Lavoro, 04/2012, pp. 1072 ss.
[18] Le opinioni di BETTINI
sono a p. 12 ss di Colloqui Giuridici del
Lavoro, 01/2012.
[19] Vedi MARIA TERESA
CARINCI, Il licenziamento non sorretto da
giusta causa e giustificato motivo soggettivo: i presupposti applicativi delle
tutele dell’art. 18 St. lav. alla luce dei vincoli imposti dal sistema, in
Rivista Italiana di Diritto del Lavoro,
04/2012, p. 1052 ss.
[20] Le opinioni di DEL CONTE
sono a p. 25 ss di Colloqui Giuridici del
Lavoro, 01/2012.
Fine 2a parte-Continua
Testo prodotto originalmente dal Dr. Giorgio Frabetti, Profilo Linkedin: http://www.linkedin.com/profile/view?id=209819076&goback=%2Enmp_*1_*1_*1_*1_*1_*1_*1_*1_*1&trk=tab_pro
Collaboratore Studio Francesco Landi, Consulente del Lavoro, Ferrara
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