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giovedì 27 aprile 2017

LAVORO A CHIAMATA NEL SETTORE DOMESTICO? DIREI DI NO, PERO', PERO' ...

Si può fare un contratto a chiamata nel settore domestico? Ad esempio, sul web si avanza l’osservazione (in sé legittima) di aprire al lavoro a chiamata nel settore domestico, per sostituire i voucher, come noto, abrogati da un recente provvedimento di legge.
Questo contratto, come noto, è attivabile, in assenza di disposizioni di CCNL, al ricorrere delle prestazioni “discontinue e intermittenti” definite dal Regio Decreto 2657/23, ovvero (a prescindere dal Regio Decreto) per lavoratori con meno di 24 anni, ovvero più di 55. Dal CCNL dei Domestici non emerge alcuna indicazione, né negativa, né positiva. Il “lavoro a chiamata”, insieme al cd “lavoro ripartito”, è stato introdotto dal D.lgs. 276/03 (Legge Biagi).
Ma il CCNL Domestico disciplina solo il “lavoro ripartito”, non il “lavoro a chiamata”.
Come interpretare questo silenzio?
Allo stato attuale delle nostre informazioni, propendiamo per la risposta negativa.
Pur non essendo esplicitamente vietato nel CCNL Domestico, il lavoro a chiamata appare inconciliabile con vari aspetti della disciplina del CCNL Domestico stesso.
Innanzitutto, consideriamo che il lavoro a chiamata può prevedere che il Dipendente non presti disponibilità al lavoro. Ovvero, si stipula un contratto, il Dipendente non dà disponibilità, il Datore non chiama. Questa ipotesi non pare proprio compatibile con le previsioni dell’art. 15 CCNL Domestici. Se lo si legge attentamente, infatti, il CCNL presuppone che gli accordi sull’orario tra Datore di Lavoro domestico e Lavoratori siano concepiti per “lavorare sul serio”, e non per lavorare a fronte di una “ipotetica o platonica possibilità di lavoro”.
In altro caso, il “lavoro a chiamata” prevede che il Dipendente dia la propria disponibilità, magari entro certe fasce: ma, allora, questa eventualità è già compatibile con l’art. 15, che, ad esempio, non esclude forme di frazionamento in giornata della prestazione.
Se, poi, il problema del lavoro a chiamata è quello di consentire prestazioni “discontinue” o “di attesa” notturne, dobbiamo dire che queste ipotesi sono già contemplate dal CCNL, agli articoli 11 e 12.
A queste condizioni, siamo molto in imbarazzo ad intervenire: anche ammettendo, infatti, un contratto a chiamata, nel settore domestico, rischiamo di pervenire (con estrema facilità) ad una contrattualistica decisamente inferiore agli standard di tutela definiti dal CCNL.
E questo non è possibile, dato che il Codice Civile (art. 2077) vieta espressamente alla contrattazione individuale di introdurre condizioni più sfavorevoli rispetto al CCNL: in questo caso, dovrebbe sempre prevalere il contratto collettivo.
Precisiamo che questa è una valutazione che noi diamo “nel dubbio”, ossia persistendo il dubbio sulla reale disciplina applicabile: nel dubbio, cioè, visti i notevoli problemi e trabocchetti che si frappongono, riteniamo di garantire meglio e più il Datore di Lavoro domestico, escludendo questa possibilità.
Stiamo parlando di interpretazioni di leggi e CCNL, ricordiamolo! Cose che non sono scolpite sulla pietra del Sinai, ma che possono cambiare.
Qualcuno sul web dice che il lavoro a chiamata nel settore domestico si può fare? Ebbene, questa è una legittima valutazione di “politica del diritto”. Ma questa valutazione non può diventare prassi operativa, solo perché alcune persone ne parlano sul web.
Deve essere il Ministero del Lavoro a dire l’ultima parola! Quindi, ove questo consentisse all’uso del contratto a chiamata nel settore Domestico, allora Vi daremo corso. Altrimenti, no. Aspettiamo, quindi, gli sviluppi.

sabato 15 aprile 2017

BUONA PASQUA 2017


A VOI CHE FEDELMENTE SEGUITE IL NOSTRO PICCOLO BLOG, I NOSTRI PIU' CARI AUGURI DIA BUONA PASQUA!!!
By GIORGIO FRABETTI

giovedì 13 aprile 2017

VERSO LA RIFORMA DEL TELELAVORO. SEGNALAZIONE DI UN PROBLEMA DI DIRITTO INTERTEMPORALE

*NOTA GENERATA DALLA LETTURA DELL’ARTICOLO SMART WORKING, TEST SULLE VECCHIE INTESE DE IL SOLE 24 ORE DEL 10/4/17
E’ prossima l’approvazione definitiva del cd Jobs Act Autonomi che contiene, tra le altre cose, la riforma del telelavoro. Una volta approvata la riforma, il telelavoro cesserà di esistere e, al suo posto, subentrerà il cd smart working.
La definizione delle nuove regole sullo smart working sarà rimessa alla contrattazione collettiva.
E qui, sorge il problema: prima che i CCNL avranno recepito la nuova contrattualistica, cosa sarà delle vecchie norme sul “telelavoro”? Si intenderanno provvisoriamente confermate, in attesa di nuove norme? In questo caso, le Aziende potranno, nel frattempo, stipulare contratti di “telelavoro”, secondo l’attuale disciplina.
Oppure, la nuova legge comporterà l’abrogazione delle precedenti norme collettive? In questo caso, le Aziende, in attesa delle nuove norme di CCNL adeguate alla riforma, non potranno stipulare contratti di “telelavoro”.
Per ora, si segnala il parere di MAURIZIO DEL CONTE, giuslavorista ed estensore del disegno di legge, che, al Sole 24 Ore del 10/4/17, ha dichiarato che le nuove norme comportano il mantenimento in vigore delle precedenti intese, in quanto non contenenti disposizioni in contrasto con la Riforma.
Restiamo, comunque, in attesa dell'approvazione della legge di riforma del telelavoro.

martedì 11 aprile 2017

UNIONI CIVILI, CONVIVENZE E IMPRESA "FAMILIARE", RIFLESSI SULLA CONTRIBUZIONE INPS-FLASH

La legge 76/2016 ha riconosciuto le convivenze omo ed eterosessuali, secondo due canali:

1)      Le cd Unioni Civili, molto simili al matrimonio, ma riservate alle coppie omosessuali (art. 1.commi 2-35);
2)      Le cd Convivenze registrate, aperte sia a coppie omosessuali sia a coppie eterosessuali (art.1.commi 36-65).

Se il Convivente (o il Partner di “Unione Civile”), in assenza di rapporto subordinato, non Socio, presta lavoro entro l’Azienda (individuale) dell’altro partner, quale disciplina si applica, ai fini civilistici e previdenziali?
Se ne occupa la stringata e asciutta Circolare INPS 66/2017 (che si allega).
La Circolare affronta distintamente i casi:

UNIONE CIVILE:
Si applica all’ “Unione Civile” il regime della “Impresa familiare” ex. art. 230bis Codice Civile. Tale è la conseguenza del comma 13 della legge 76/2016, che estende alle “Unioni Civili”, tra gli altri, anche l’applicazione del Capo VI, Titolo VI, Sezione VI del Libro Primo del Codice Civile, contenente la disciplina dell’ “Impresa Familiare”.
Dal punto di vista previdenziale, il comma 20 della legge 76/2016 permette di riconoscere il partner di “Unione Civile” quale “Coadiuvante familiare”, tenuto, ricorrendone le condizioni, a versare la contribuzione INPS (Gestione Artigiani-Commercianti) ex. art. 2.2°comma.nr.1) della legge 76/2016.
Per effetto del comma 20, in caso di costituzione di “Impresa familiare” da parte del Partner di “Unione Civile”, si applica la corrente disciplina fiscale, oggi prevista per le famiglie unite in matrimonio.

CONVIVENZE REGISTRATE:
Alle Convivenze “Registrate” si applica un regime “affine” all’ “Impresa Familiare”. Il comma 46 della legge 76/2016 introduce un articolo 230ter al Codice Civile, prevedendo in caso di “Collaborazione stabile” del Convivente all’ Impresa del Partner il diritto del Convivente “alla partecipazione agli utili, ai beni acquisiti e all’avviamento”.
L’INPS esclude che tali somme abbiano valenza imponibile ai fini della gestioni “autonome” (in primis Artigiani-Commercianti).
Resta non chiarito, però, come andranno trattate tali somme ai fini fiscali, difettando qualsiasi previsione in questo senso nel corpo della legge 76/2016.

giovedì 6 aprile 2017

LA DIPENDENTE IN MALATTIA PUO’ LAVORARE COME COLF?

Con sentenza nr. 15989/2016, la Corte di Cassazione è tornata su una problematica nota, ma affrontata, nel tempo con soluzioni diverse (più benevole negli anni 70-80, più rigorose, negli anni 90 e 2000): il lavoro del Dipendente in malattia.
E, particolarmente, nella forma apparentemente più accettabile, il “lavoro domestico”. A norma di “senso comune”, se il Dipendente (specie donna) è afflitto da problemi di “esaurimento nervoso” che non impediscono l’effettuazione di faccende domestiche, il lavoro domestico presso terzi, anche retribuito, non parrebbe vietato. Naturalmente, l’orario deve essere compatibile con le fasce di “reperibilità” prescritte dalla legge e che il Lavoratore deve in ogni caso osservare.
La sentenza di Cassazione che qui si richiama (e che si allega) non disconosce al Dipendente malato questa possibilità, ma la subordina alla sussistenza di precisi elementi medico-legali che suffraghino la compatibilità di tale lavoro con lo stato di malattia.
E’ opportuno che, in questi casi, il Dipendente avverta l’Azienda e si metta a disposizione dei Medici competenti Aziendali, INPS per gli accertamenti di merito.
Di massima, un lavoro di poche ore, sostanzialmente occasionale, ovviamente “regolare”, non dovrebbe creare grossi problemi al processo di recupero psico-fisico.
Ma, sul punto, sarebbe quanto mai opportuno che l’INPS desse indicazioni di casistica precisa, in modo da non subìre i ritmi lenti e incerti della Magistratura. La sentenza si può consultare al sito web Teleconsul al link: http://www.tcnotiziario.it/Articolo/Index?settings=ZTRrY1paTW5FamFrVEpReG9obVJySzNQeUlIbHRPZ3VqanRnZkxiNmxVc1QrTmxNckxrZ0duT0ZxWkJUTk5WQnFwY25kOXdVbnVsbzBIbS9qZEJuVENtemxUaVFnTXFGUWg1dStmMDF3eFQxeG1GVmdGY25yZTVHcmJwZi9WRmVlYWdDdGUxZFd6S0ZHN21WQ2NMMXZ3PT0=

mercoledì 5 aprile 2017

VELO ISLAMICO IN AZIENDA, IL DATORE DI LAVORO PUO' VIETARLO? ECCO COSA DICE L'EUROPA!

Ha fatto molto discutere in Tv, sul web, la sentenza con la quale la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha dato ragione ad un’Azienda che aveva vietato al proprio personale l’uso del velo “islamico” nei locali di lavoro ed aveva licenziato una Dipendente per questo motivo.
Un simile divieto, precisa la Corte di Giustizia, non costituisce “discriminazione religiosa” ai sensi della Direttiva CE 2000/78. Stiamo parlando della sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 14/3/2017 C-157/15.
Il tema è molto delicato e complesso.
Crediamo che un’utile e opportuna informativa debba muovere (per ora) solo dal caso affrontato dalla Corte, senza sbilanciarsi in facili deduzioni e conclusioni. Qui di seguito, il caso.

Caso:
Tizia lavora come receptionist presso un’Azienda del Terziario. Tizia è di fede islamica e un giorno richiede alla Direzione dell’Azienda di indossare il velo. Tizia sa che, in Azienda, vige la consuetudine secondo cui indossare il velo è vietato. Infatti, l’Azienda conferma il divieto, precisando che il divieto è conforme ad una linea di “neutralità religiosa” che l’Azienda intende mantenere nei rapporti con i propri Clienti e con il pubblico. Frattanto, l’Azienda modifica il Codice Disciplinare interno, precisando in capo al Personale il divieto di utilizzare velo e di esibire simboli religiosi. Tizia non recede davanti a questa mossa aziendale e chiede di poter comunque indossare il velo durante il lavoro. L’Azienda licenzia Tizia, la quale contesta la “discriminazione religiosa”, vietata dalla Direttiva CE 2000/78.
Chi ha ragione?

Risposta:
La sentenza è di grande rilevanza per la prassi disciplinare delle Aziende. Nella sentenza, infatti, si esamina se sia contraria alla normativa CE sulle “discriminazioni religiose” una norma di Codice Disciplinare aziendale che disponga più o meno così:

L’Azienda, nei confronti del Pubblico e della Clientela, si attiene alla più rigorosa “neutralità religiosa”. Chiunque presti servizio alle nostre dipendenze si dovrà attenere a questa linea aziendale e si asterrà dall’indossare qualsivoglia simbolo o insegna di ordine religioso (crocifisso, chador e simili).

Una norma disciplinare così confezionata non sarebbe in contrasto con la Direttiva CE 2000/78.
La motivazione della Corte Europea è secca e serafica: la norma è rivolta a tutti i Dipendenti e non si presta a disparità di trattamento o discriminazioni tra religioni.
Non solo: tale norma disciplinare è conforme all’art. 16 della Carta di Nizza, che riconosce la “libertà di impresa”.
In altre parole, l’imprenditore è libero di perseguire, nella sua organizzazione, linee improntate a “neutralità religiosa” ed è, quindi, libero di pretendere che i Dipendenti non indossino alcun simbolo religioso.

Tutto chiaro? Fino ad un certo punto.
Cosa sarebbe di una sentenza simile in Italia? In Italia, dove, al contrario, è consuetudine tenere il crocifisso negli Uffici, non solo pubblici, ma anche privati?
Un Datore di Lavoro privato che tenesse un crocifisso in Azienda potrebbe invocare questa sentenza per impedire ad una dipendente di indossare il velo?
Il quesito è aperto e non ci azzardiamo a dare facili soluzioni.
Per quanto ci è dato di capire, in Italia, l’uso del crocifisso è stato confermato nei locali pubblici, privati etc. come “simbolo civile, culturale”, non come “simbolo confessionale”.
Questo uso non è assimilabile al caso di esibizione della croce sul petto delle Suore, dei Preti, dei Consacrati. Va, al riguardo, ricordato che le norme comunitarie sulla “discriminazione religiosa”, nell’insegnamento consolidato della Corte di Giustizia, devono tener conto delle “tradizioni costituzionali” locali: tradizioni che variano dalla rigida “laicitè” francese, alla più blanda “ricezione civile” di simboli religiosi “all’italiana”.
In ogni caso, però, queste tradizioni, aldilà delle loro più appariscenti manifestazioni, presuppongono una chiara “neutralità” confessionale. Ma, sul punto, si raccomanda molta, molta prudenza.

LINK: http://www.bollettinoadapt.it/non-e-discriminatorio-il-regolamento-aziendale-che-vieti-ai-dipendenti-di-indossare-segni-religiosi/