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giovedì 31 dicembre 2015

BUON ANNO!!!

I curatori del ns Blog augurano ai lettori un 2016 di prosperità e pace.
Ci vediamo dopo l'Epifania per seguire gli ultimi aggiornamenti del Jobs Act e della legge di stabilità 2016.
BUON ANNO A TUTTI!!!!

mercoledì 30 dicembre 2015

NUOVA CONVALIDA DELLE DIMISSIONI, SE IL LAVORATORE REVOCA LE DIMISSIONI ...

Quesito:
Il cd Decreto Semplificazione prevede ancora, in capo al Lavoratore dipendente, la facoltà di revoca delle dimissioni non convalidate? E quali le conseguenze?

Risposta:
Premesso che fino a quando la materia non sarà stata riordinata con decreto del Ministero del lavoro, secondo le previsioni di cui al comma 3 dell’art. 26 D.lgs. 151/2015, resterà in vigore (vedi art. 26.8°comma D.lgs. 151/2015) la previsione dell’art. 17.21°comma l. 92/2012 (per il contenuto dell’art. 17.21°comma l. 92/2012 si rinvia alla tabella che segue), la facoltà di revoca delle dimissioni del Lavoratore (altrimenti detta “diritto di ripensamento”) è confermata.
Nonostante il contenuto più smilzo della disposizione di legge che ora riguarda questa previsione, il contenuto non pare mutato rispetto all’edizione ex. l.92/2012, e non ci sono da aspettarsi modifiche di rilievo nell’emanando decreto ministeriale. Ecco, le due discipline a fronte.

EDIZIONE D.LGS. 151/2015
Art. 26.2°comma
Entro sette giorni dalla data di trasmissione del modulo di cui al comma 1 il lavoratore ha la facoltà di revocare le dimissioni e la risoluzione consensuale con le medesime modalità.

EDIZIONE L. 92/2012
Art. 17.21°comma
Nei sette giorni di cui al comma 19, che possono sovrapporsi con il periodo di preavviso, la lavoratrice o il lavoratore ha facoltà di revocare le dimissioni o la risoluzione consensuale. La revoca può essere comunicata in forma scritta. Il contratto di lavoro, se interrotto per effetto del recesso, torna ad avere corso normale dal giorno successivo alla comunicazione della revoca. Per il periodo intercorso tra il recesso e la revoca, qualora la prestazione lavorativa non sia stata svolta, il prestatore non matura alcun diritto retributivo. Alla revoca del recesso conseguono la cessazione di ogni effetto delle eventuali pattuizioni a esso connesse e l'obbligo in capo al lavoratore di restituire tutto quanto eventualmente percepito in forza di esse.

Queste le principali note di commento.
Quanto alla forma, in luogo della “forma scritta”, si dispone che la revoca può essere fatta “nella stessa forma” con cui erano state presentate le dimissioni: si tratta di una forma per relationem. 
Il quesito, comunque, riveste scarsa attualità pratica, dal momento che la stragrande maggioranza dei contratti collettivi prevede, per le dimissioni, la forma scritta come obbligatoria. E dal momento che la forma delle dimissioni è ormai "telematica". Così, come le dimissioni, anche la loro revoca dovrà essere telematica.
Per quanto riguarda, gli effetti della revoca, nulla, allo stato, impedisce al dm di recuperare (sia pure a livello di disposizione secondaria) la disposizione attualmente contenuta nel secondo periodo dell’art.4.21°comma l. 92/2012: gli effetti contrattuali qui descritti (l’assenza di riflessi retributivi etc.) sono effetti di “diritto comune” che si riprodurrebbero in ogni caso, anche se (formalmente) abrogata la previsione ex. art. 4.21°comma citata.
Restiamo a disposizione per aggiornamenti.

JOBS ACT, CESSIONE DELLE FERIE E RIPOSI DEL PERSONALE DIPENDENTE. PRIME NOTE

Con il Jobs Act, diventa possibile cedere ferie e riposi.
Per la precisione, l’art. 24 D.lgs. 151/2015 consente ad un Dipendente di cedere ferie e riposi (settimanali, a quanto è dato capire) ad un altro Dipendente c/o lo stesso Datore di Lavoro ma solo allo scopo di accrescere il “monte ore” disponibile per l’assistenza del figlio minore. La previsione non è operativa, in quanto la sua attuazione è rimessa ai contratti collettivi.
Ecco cosa dispone il testo di legge:

Art. 24. Cessione dei riposi e delle ferie.
1. Fermi restando i diritti di cui al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, i lavoratori possono cedere a titolo gratuito i riposi e le ferie da loro maturati ai lavoratori dipendenti dallo stesso datore di lavoro, al fine di consentire a questi ultimi di assistere i figli minori che per le particolari condizioni di salute necessitano di cure costanti, nella misura, alle condizioni e secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale applicabili al rapporto di lavoro.

Per un primo commento, si rinvia all’articolo di MASSI al link: http://www.generazionevincente.it/?p=8403.
Aderendo alle prime note di commento di MASSI, non si può non mostrare perplessità: ferie e riposi settimanali sono qualificati come “irrinunciabili” da norme di rango costituzionale (art. 36.4°comma Cost.) e non pare proprio esistano i presupposti per consentire negoziazioni, quantomeno sulla quota minima di ferie. Tra l’altro, per tradizione (coerente alle norme costituzionali) si ritiene che il “diritto alle ferie” non sia cedibile nemmeno in sede di “conciliazione” ex. art. 2113.4°comma Codice Civile (il “maturato” e non pagato o non fruito è un’altra questione, può essere oggetto di “transazione”).
Ricordiamo che i vincoli non sono solo di origine costituzionale, ma anche europei. Il D.lgs. 66/2003 (recependo consolidate regole europee) fissa il minimo di ferie annuo in 4 settimane e vieta, per questa quota, la monetizzazione delle ferie: un’indicazione che, sia pure indirettamente, conferma l’indisponibilità delle ferie, perché vieta ogni “compensazione economica”.
Se si considera, poi, che la cessione deve avvenire, ma senza pregiudizio dei diritti previsti ex. D.lgs. 66/2003 (e non solo dei diritti di rango costituzionale ferie e riposi settimanali), si fatica davvero a comprendere davvero su quali margini la contrattazione collettiva possa efficacemente intervenire, dati i pesanti vincoli.
E’ fondato il sospetto della complessiva illegittimità costituzionale dell’istituto per “manifesta irragionevolezza” (art. 3 Cost.).
E questo per il semplice motivo che ferie, riposi etc. costituiscono diritti “personali” del lavoratore, strettamente inerenti alla sua posizione lavorativa e non si comprende la ragione giuridica (la “causa” ex. art. 1343 Codice Civile) come essi possano essere traslati su altri.
E’ sufficiente motivare la cessione a fronte di esigenze assistenziali di altro Dipendente? Esigenze assistenziali, per altro, di cui non è fissato il termine di documentazione e di supporto per tale operazione negoziale? Non è chiaro …
Finora, gli istituti inderogabili a tutela del lavoratore dipendente potevano essere negoziati a fronte di situazioni di pesanti crisi aziendali, particolarmente attraverso gli istituti del cd “contratto di solidarietà” o in occasione di procedure di Cassa Integrazione Guadagni o mobilità: per superiori “interessi collettivi” di conservazione della capacità produttiva aziendale e dei posti di lavoro a rischio: non per ragioni individuali come l’assistenza dei figli … Restiamo comunque in attesa dei necessari aggiornamenti

lunedì 21 dicembre 2015

EROGAZIONI LIBERALI IN DENARO (FESTIVITA' NATALIZIE)- RIEPILOGO

In occasione delle festività natalizie 2015/16, si coglie l’occasione per ricordare che il valore dei beni ceduti o dei servizi prestati che, nel periodo di riferimento, risulta complessivamente inferiore a € 258,52 non si considera retribuzione imponibile ai fini della determinazione del reddito di lavoro dipendente, rilevante ai fini IRPEF, INPS e INAIL. Tale soglia di esenzione, come precisato dalla Circolare Ag. Entrate 59/2008, non deve intendersi “in franchigia”.
La soglia di € 258.52 (da calcolarsi in riferimento al periodo di imposta), se superata (dal singolo bene o dal complesso di beni o servizi erogati al Dipendente) concorre a base imponibile IRPEF, INPS, INAIL per l’intero.
Ai fini della suddetta disciplina, si considerano “beni in natura” anche i “buoni rappresentativi”: es. buoni benzina, buoni acquisto Standa e simili).
Dal 2008, non è più previsto che tali erogazioni riguardino la generalità o categorie di Dipendenti in occasione di festività natalizie o ricorrenze: le erogazioni possono interessare anche un Dipendente solo e l’erogazione non deve necessariamente essere riferita a festività o ricorrenze (anche se persiste la consuetudine che tali erogazioni abbiano carattere “natalizio”).
Le somme di denaro, al contrario, non sono in alcun caso esenti IRPEF, INPS, INAIL: e questo anche se inferiori alla soglia di € 258.52. Questa regola vale da luglio 2008. Solo in via eccezionale, tale possibilità è stata ripristinata e comunque per zone e un tempo limitati: ad esempio, nell’immediatezza del sisma che ha colpito L’Aquila (periodo 2009-10), ovvero in occasione del sisma dell’Emilia nel 2012.
In allegato, il testo della Circolare Ag. Entr. 59/2008, che riepiloga i contenuti sopra riportati.

ESTRATTO CIRCOLARE AGENZIA DELLE ENTRATE 59/2008:
16. Erogazioni liberali in natura
L'art. 2, comma 6, del decreto-legge n. 93/2008 ha soppresso la previsione di cui all'art. 51, comma 2, lettera b), del TUIR che escludeva dalla base imponibile ai fini dell'imposta sul reddito di lavoro dipendente le erogazioni liberali effettuate dal datore di lavoro e taluni sussidi economici dallo stesso concessi. In particolare, le erogazioni liberali concesse in occasione di festività o ricorrenze alla generalità o a categorie di dipendenti erano escluse dalla formazione del reddito di lavoro dipendente, fino a 258,23 euro nel periodo d'imposta.
Per effetto della suddetta soppressione, le erogazioni liberali concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente per l'intero importo, ferme restando le specifiche eccezioni previste nell'art. 51 del TUIR.
In particolare, il comma 3 dell'art. 51 citato Testo unico esclude dalla formazione del reddito il valore normale dei beni ceduti e dei servizi prestati - determinato secondo i criteri indicati nel medesimo art. 51 - se complessivamente di importo non superiore, nel periodo d'imposta, a 258,23 euro; la medesima norma stabilisce, inoltre, che se detto valore è superiore al limite indicato lo stesso concorre interamente a formare il reddito. Si ritiene, al riguardo, che la previsione di cui al citato comma 3 dell'art. 51 del TUIR fornisca i criteri per la determinazione del valore dei beni in natura, stabilendo altresì una soglia di detassazione, e che i medesimi criteri debbano essere utilizzati anche se benefit consiste in una erogazione liberale in natura. Ed infatti, la circolare n. 326/1997, in vigenza della previsione agevolativa sulle liberalità ora abrogata, precisava che " ai fini del calcolo del limite in questione, non devono essere considerate le erogazioni liberali di importo complessivamente non superiore nel periodo d'imposta a lire 500.000 concesse in occasione di festività o ricorrenze ...".
Pertanto, con l'abrogazione della disposizione agevolativa relativa alle liberalità, le stesse, ove siano erogate in natura (sotto forma di beni o servizi o di buoni rappresentativi degli stessi) possano rientrare nella previsione di esclusione dal reddito se di importo non superiore, nel periodo d'imposta, a 258,23 euro. Ai sensi del citato comma 3 dell'art. 51, peraltro, l'esclusione dal reddito opera anche se la liberalità è erogata ad un solo dipendente non essendo più richiesto che l'erogazione liberale sia concessa in occasione di festività o ricorrenze alla generalità o a categorie di dipendenti, fermo restando che se il valore in questione è superiore a detto limite, lo stesso concorre interamente a formare il reddito.
Al riguardo si ritiene che tale disposizione da una parte consente di continuare ad agevolare talune forme di liberalità in natura di modico valore offerte usualmente ai dipendenti (come quelle legate alle festività) e, dall'altra, non è lesiva degli interessi erariali in quanto resta vincolata al rispetto dei limiti dettati dall'art. 51 del TUIR.
Le Direzioni regionali vigileranno affinché le istruzioni fornite e i principi enunciati con la presente circolare vengano puntualmente osservati dagli uffici.

CASO PARTICOLARE: CESSIONE GRATUITA DI PRODOTTI AZIENDALI. E’ questo il caso, ad esempio, del Datore di Lavoro che ceda ai propri Dipendenti un bene come incentivo all’acquisto di un prodotto aziendale: ad esempio, una Società produttrice di automobili che regala un televisore al Dipendente che acquisti un’automobile, in alternativa ad un ulteriore sconto in denaro sul prezzo di vendita del veicolo. Anche per quest’ipotesi rileva (ai fini dell’imponibilità IRPEF, INPS, INAIL) la soglia degli € 258.52. Ma il calcolo del valore del benefit segue regole particolari (definite in primis ex Ris. A.E. nr. 202/2003 e Circ. INPS 168/2004). A questa casistica, dedicheremo uno spazio di analisi specifico in altro contributo.

venerdì 18 dicembre 2015

IL TFR IN BUSTA PAGA E CESSIONE DEL QUINTO-QUESITI TRATTATI DA "L'ESPERTO RISPONDE" (3576-41/2015)

Quesiti:
1) Se il Lavoratore aderisce alla Qu.I.R. (Quota Integrativa della Retribuzione), può chiedere successivamente un finanziamento con cessione del quinto?
2) Posto che, per ottenere la Qu.I.R., il TFR del Dipendente deve essere libero da vincoli, una volta attivata la Qu.I.R., il TFR rimane bloccato, oppure è disponibile per finanziamenti?

Risposta:
Ai sensi dell’art. 3 dpcm 27/2/2015, non può accedere alla Qu.I.R. il Lavoratore dipendente il cui TFR sia a disposizione (ossia vincolato, in garanzia) per contratti di finanziamento.
Dal tenore complessivo del testo di legge, questo impedimento è previsto per contratti di finanziamento anteriori alla costituzione della QU.I.R., non posteriori.
Quindi, successivamente al perfezionamento della Qu.I.R., il Lavoratore può impegnare per contratti di finanziamento sia il TFR maturato presso l’Azienda fino al riconoscimento della Qu.I.R., sia la quota di TFR in busta paga (tipicamente, per cessioni del quinto).
E’ evidente che, in quest’ultimo caso, la frazione del “quinto” cedibile in finanziamento deve tener conto degli emolumenti retributivi aggiornati con la Qu.I.R.
A disposizione per approfondimenti

mercoledì 16 dicembre 2015

QUANDO IL SUB APPALTO E' MASCHERATO ...

Si richiama la Vs. attenzione sul caso di una contrattualistica particolarmente border line, segnalata recentemente da L’Esperto Risponde nr. 39/2015 (Caso 3356).

Caso:
La Società Alfa svolge attività idraulica. Essa appalta ad un’altra azienda, detta Beta, la realizzazione degli impianti. Alfa provvede alla fornitura del materiale più costoso (sanitari, rubinetteria), Beta, invece, fornisce la raccorderia. Beta decide di affidare ad un Artigiano idraulico parte del lavoro, solo per prestazione d’opera. Quale contratto può stipulare Beta con detto Artigiano?

Risposta:
Stando alle più che scarne informazioni qui riportate, non è possibile dire molto. Certo, tale contrattualistica presenta più di un fattore di vulnerabilità, stando alla giurisprudenza più nota e consolidata.
E’ certamente molto anomalo, e molto può indiziare negativamente il contratto di appalto (e gli eventuali sub-appalti), che i soggetti che curano la fornitura del materiale non coincidano (nemmeno in parte) con chi deve curare il lavoro (addirittura, il lavoro viene affidato ad un soggetto solo, un Artigiano, non responsabile di altri aspetti dell’organizzazione economico-imprenditoriale).
La contrattualistica non pare supportare, come richiesto dall’art. 29 D.lgs. 276/03 (tuttora vigente, nonostante l’avvento del D.lgs. 81/2015), una genuina sequenza imprenditoriale, che presuppone un minimo di “autonomia organizzativa”, caratteristica tipica del lavoro dell’imprenditore.
C’è più di un dubbio per concludere che, nel caso di specie, siamo davanti ad un mero “appalto di manodopera”, certamente illecito e tale da viziare integralmente la cd “filiera dell’appalto” (ossia la sequenza contrattuale di appalto nel suo complesso). In questo senso, è da escludere radicalmente la possibilità di “vestire” il rapporto con l’Artigiano con un contratto di sub-appalto, in quanto tale subappalto supporterebbe mera “manodopera”.
Resterebbe la possibilità (meramente teorica) del “contratto d’opera” ex. art. 2222 Codice Civile. Un simile contratto, tipico del lavoro autonomo, potrebbe rivestire correttamente il rapporto economico de quo. Resta il fatto, però, che le anomalie contrattuali complessive sono molto rilevanti: un simile rapporto sarebbe comunque a serio rischio, in caso di accesso ispettivo.
A disposizione per approfondimenti

martedì 15 dicembre 2015

I COMPENSI AI FAMILIARI DEL LIBERO PROFESSIONISTA-DEDUCIBILITA' FISCALE

Caso (tratto da Euroconference, 11/12/2015):
Nello studio medico del dr. Rossi, la moglie Tizia, Commercialista, tiene la contabilità, mentre la figlia Caia collabora occasionalmente con il padre. Per entrambe, per moglie e figlia, il dr. Rossi sostiene dei costi: per prestazione professionale (per la moglie Commercialista), per compensi da lavoro occasionale per la figlia minorenne. Sono deducibili fiscalmente?

Risposta:
Il quesito va risolto alla luce dell’art. 54.6bis DPR 917/86 (introdotta dalla l. 662/96) che stabilisce quanto segue:

6-bis. Non sono ammesse deduzioni per i compensi al coniuge, ai figli, affidati o affiliati, minori di età o permanentemente inabili al lavoro, nonché agli ascendenti dell'artista o professionista ovvero dei soci o associati per il lavoro prestato o l'opera svolta nei confronti dell'artista o professionista ovvero della società o associazione. I compensi non ammessi in deduzione non concorrono a formare il reddito complessivo dei percipienti.

La Circolare Min. Fin. 25/97 ha precisato il campo di applicazione di tale norma, limitandola a dipendenti e collaboratori occasionali. Ecco, qui di seguito, il testo di interesse:

In proposito, si ritiene che la disposizione in commento riguardi i compensi corrisposti ai predetti soggetti in qualita' di lavoratori dipendenti, di titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nonche' di collaboratori occasionali. La disposizione non si applica, invece, ai compensi erogati al coniuge o ai predetti familiari per prestazioni di lavoro autonomo artistico o professionale di cui all'art. 49, comma 1, del Tuir in quanto la disposizione in esame usa la locuzione "lavoro prestato" con riferimento ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nonche' occasionale. Proprio la locuzione "opera svolta", infatti, non si puo' riferire ai lavoratori autonomi esercenti arti e professioni, in quanto questi ultimi non svolgono un'opera per conto di un terzo ma prestano autonomamente servizi a terzi. Inoltre, stante l'introduzione nel comma 6, dell'art. 50 del Tuir del riferimento ai limiti introdotti nel successivo comma 6-bis, l'indeducibilita' si riferisce anche agli accantonamenti di quiescenza e previdenza effettuati a decorrere dal periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 1996. (…) Rimangono, invece, deducibili i contributi previdenziali e assistenziali versati dall'artista o professionista (dall'associazione o societa') per lavoratori dipendenti e per i collaboratori.

Alla luce di quanto precisato sopra, possiamo dire che il compenso prestato alla moglie Commercialista è deducibile; la prestazione “occasionale” della figlia minore, no.

N.B.: Deve considerarsi deducibile l’eventuale contribuzione previdenziale INPS a carico del Professionista. Ad esempio, nel tipico caso in cui la collaborazione occasionale della figlia Caia superasse il plafond degli € 5.000 lordi. Sul punto, Federica Furlani nella news Euroconference richiama l’espressa posizione del Ministero delle Finanze nella Circolare sopra citata.

lunedì 14 dicembre 2015

LAVORO A TERMINE E LIMITI QUANTITATIVI, IL PUNTO SULLE SANZIONI AMMINISTRATIVE DOPO IL JOBS ACT 2015

L’impianto della disciplina sui cd “limiti quantitativi” dei contratti a termine disegnata dal DL 34/2014 (conv. in l. 78/2014) è stato trasportato “tale e quale” nel corpo del D.lgs. 81/2015 all’articolo 23.
Gli adattamenti sono veramente minimi.
L’unica vera novità di rilievo è l’espressa previsione (art. 23.14°comma) che la violazione dei “limiti quantitativi” non comporta trasformazione automatica dei rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato (conclusione su cui i commentatori erano assestati in maggioranza, ma sulla quale il Ministero del Lavoro aveva glissato).
Per il resto, il D.lgs. riporta (consolida) a livello di legge fattispecie ed aspetti precedentemente sviluppati solo in Circolari (ad esempio, gli arrotondamenti citati in Circ. 18/2014) ovvero il caso particolare del computo in caso di “avvio attività” (oggetto della Nota 14974/2014). Nulla cambia, in particolare, per quanto riguarda le sanzioni amministrative.

Qui di seguito, un breve riepilogo della normativa applicabile e della casistica di immediata rilevanza.

Al riguardo, l’art. 23.4°comma D.lgs. 81/2015 dispone:

In caso di violazione del limite percentuale di cui al comma 1, restando esclusa la trasformazione dei contratti interessati in contratti a tempo indeterminato, per ciascun lavoratore si applica una sanzione amministrativa di importo pari: a) al 20 per cento della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale non è superiore a uno; b) al 50 per cento della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale è superiore a uno.

Per un completo ed utile compendio applicativo è possibile fare ancora riferimento alla Circolare Min. Lav. 18/2014:

(…) In caso di violazione del limite percentuale di cui all'articolo 1, comma 1, per ciascun lavoratore si applica la sanzione amministrativa: a) pari al 20 per cento della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale non sia superiore a uno: b) pari al 50 per cento della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale sia superiore a uno.

Sul punto va precisato che la sanzione amministrativa - atteso peraltro il rinvio all'art. 1, comma 1, del Decreto che a sua volta rinvia, ove esistenti, alle previsioni adottate dalla contrattazione collettiva ai sensi dell'art. 10, comma 7, del D.Lgs. n. 368/2001 - trova applicazione in caso di superamento del limite alla stipulazione di contratti a tempo determinato che il datore di lavoro è tenuto a rispettare, sia questo il limite legale del 20% é che il diverso limite contrattuale. L'importo sanzionatorio va poi calcolato in base ad una percentuale della retribuzione spettante ai lavoratori assunti in violazione del limite e cioè gli ultimi assunti in ordine di tempo. La retribuzione da prendere in considerazione ai fini del calcolo è, in assenza di specificazioni, la retribuzione lorda mensile riportata nel singolo contratto di lavoro, desumibile anche attraverso una divisione della retribuzione annuale per il numero di mensilità spettanti. Qualora nel contratto individuale non sia esplicitamente riportala la retribuzione lorda mensile o annuale, occorrerà invece rifarsi alla retribuzione tabellare prevista nel contratto collettivo applicato o applicabile. L'importo individuato attraverso l'applicazione della percentuale del 20% o del 50% della retribuzione lorda mensile - arrotondato all'unità superiore qualora il primo decimale sia pari o superiore a 0,5 - andrà quindi moltiplicato, "per ciascun lavoratore" per il numero dei mesi o frazione di mese superiore a 15 giorni di occupazione. A tal fine, ogni periodo pari a 30 giorni di occupazione andrà considerato come mese intero e, solo se i giorni residui sono più di 15, andrà conteggiato un ulteriore mese. Ciò sta anche a significare che, per periodi di occupazione inferiore ai 16 giorni, la sanzione non potrà trovare evidentemente applicazione in quanto il moltiplicatore sarebbe pari a zero. Peraltro, ai fini del calcolo del periodo di occupazione, non è necessario tener conto di eventuali "sospensioni" del rapporto, ad esempio, per malattia, maternità, infortunio o part-time verticale; ciò che conta sarà dunque la data di instaurazione del rapporto (c.d. dies a quo) e la data in cui è stata accertata l'esistenza dello "sforamento" (c.d. dies ad quem, normalmente coincidente con la data dell'accertamento, sebbene sia possibile accertare degli "sforamenti" avvenuti in relazione a rapporti già conclusi, cosicché tale data coinciderà con la scadenza del termine).

La Circolare 18/2014 conclude con un'utile esemplificazione, che qui di seguito si riporta:

L’impianto della disciplina sui cd “limiti quantitativi” dei contratti a termine disegnata dal DL 34/2014 (conv. in l. 78/2014) è stato trasportato “tale e quale” nel corpo del D.lgs. 81/2015 all’articolo 23.

Gli adattamenti sono veramente minimi: l’unica vera novità di rilievo è l’espressa previsione (art. 23.14°comma) che la violazione dei “limiti quantitativi” non comporta trasformazione automatica dei rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato (conclusione su cui i commentatori erano assestati in maggioranza, ma sulla quale il Ministero del Lavoro aveva glissato). Per il resto, il D.lgs. riporta (consolida) a livello di legge fattispecie ed aspetti precedentemente sviluppati solo in Circolari (ad esempio, gli arrotondamenti citati in Circ. 18/2014) ovvero il caso particolare del computo in caso di “avvio attività” (oggetto della Nota 14974/2014).

Nulla cambia, in particolare, per quanto riguarda le sanzioni amministrative.

Qui di seguito, un breve riepilogo della normativa applicabile e della casistica di immediata rilevanza.

Al riguardo, l’art. 23.4°comma D.lgs. 81/2015 dispone:

In caso di violazione del limite percentuale di cui al comma 1, restando esclusa la trasformazione dei contratti interessati in contratti a tempo indeterminato, per ciascun lavoratore si applica una sanzione amministrativa di importo pari:
a) al 20 per cento della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale non è superiore a uno;
b) al 50 per cento della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale è superiore a uno.

Per un completo ed utile compendio applicativo è possibile fare ancora riferimento alla Circolare Min. Lav. 18/2014:

Impresa che supera di una sola unità il numero massimo di contratti a tempo determinato
Retribuzione annua lorda del lavoratore in questione: 19.000 euro per 13 mensilità
Periodo di occupazione: 4 mesi e 10 giorni
Importo sanzionatorio:
euro 19.000/13 = euro 1,401,53 (retribuzione mensile)
euro 1.461,53*20% = euro 292 (percentuale arrotondata di retribuzione mensile)
euro 292*4 = euro 1.168 (percentuale retribuzione mensile per periodo di occupazione)
euro 1.168/3 = 389,33 (importo sanzione ridotta ex art. 16. L. n. 689/1981).
Impresa che supera di tre unità il numero massimo di contratti a tempo determinato
Lavoratore". 1
Retribuzione annua lorda: 19.000 euro per 13 mensilità
Periodo di occupazione: 4 mesi e 10 giorni
Lavoratore n. 2
Retribuzione annua lorda: 26.000 euro per 13 mensilità
Periodo di occupazione: 2 mesi e 16 giorni
Lavoratore n. 3
Retribuzione annua lorda: 15.600 euro per 13 mensilità
Periodo di occupazione: 1 mese e 6 giorni
Imporlo sanzionatone:
euro 19.000/13 = euro 1.461,53 (retribuzione mensile lavoratore n. 1)
euro 26.000/13 = curo 2.000 (retribuzione mensile lavoratore n. 2)
euro 15.600/13 = euro 1.200 (retribuzione mensile lavoratore n. 3)
euro 1.461,53*50% = euro 731 (percentuale arrotondata di retribuzione mensile lavoratore n. 1)
euro 2.000*50% = 1.000 (percentuale retribuzione mensile lavoratore n. 2)
euro 1.200*50% = 600 (percentuale retribuzione mensile lavoratore n. 3)
euro 731*4 = euro 2.924 (percentuale retribuzione mensile per periodo di occupazione lavoratore n. 1)
euro 1.000*3 = euro 3.000 (percentuale retribuzione mensile per periodo di occupazione lavoratore n. 2)
euro 600*1 = euro 600 (percentuale retribuzione mensile per periodo di occupazione lavoratore n. 3)
euro (2.924+3.000+600)/3 = euro 2.174,66 (importo sanzione ridotta ex art. 16, L. n. 689/1981)

venerdì 11 dicembre 2015

LAVORO A CHIAMATA-SI APPLICA ANCORA IL REGIO DECRETO DEL 1923?

Quesito:
Per l’individuazione delle “prestazioni discontinue” suscettibili di utilizzazione nel “lavoro intermittente” si applica ancora il RD2657/23?

Risposta:
Dopo dubbi e incertezze che abbiamo segnalato nelle more dell’approvazione del D.lgs. 81/15, l’opinione unanime dei commentatori è che, in assenza di disposizioni di contrattazione collettiva che (a regime) dovrebbero provvedere all’individuazione di tali casistiche, il RD citato resta in vigore ai sensi della “norma transitoria” di cui all’art. 55.3°comma D.lgs. 81/2015.
Restano in vigore le precisazioni a suo tempo impartite dal Ministero del Lavoro, con Circolare 4/2005, circa l’adattamento e il coordinamento tra il citato RD (non emanato, come noto, in previsione della regolazione del “lavoro a chiamata”) e il “lavoro a chiamata” medesimo :

(…) Le attività ivi indicate devono essere considerate come parametro di riferimento oggettivo per sopperire alla mancata individuazione da parte della contrattazione collettiva alla quale il decreto ha rinviato per l'individuazione delle esigenze a carattere discontinuo ed intermittente specifiche per ogni settore. Pertanto i requisiti dimensionali e le altre limitazioni alle quali il regio decreto fa [talora] riferimento (es. autorizzazione dell'ispettore del lavoro) non operano ai fini della individuazione della tipologia di attività lavorativa oggetto del contratto di lavoro intermittente. Non rileva pertanto neppure un giudizio caso per caso circa la natura intermittente o discontinua della prestazione essendo questo compito rinviato ex ante alla contrattazione collettiva o, in assenza, al Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali cui spetta il compito di individuare, mediante una elencazione tipologica o per clausole generali, quelle che sono le esigenze che consentono la stipulazione dei contratti di lavoro intermittente.

Al riguardo, è opportuno ricordare che, in certi casi, la qualificazione di “mansione discontinua/intermittente” è subordinata dal RD a requisiti dimensionali dell’Azienda o della località dove la mansione è esercitata: tutti riferimenti, precisa il Ministero, non utili ai fini del lavoro a chiamata.
Diversi punti del RD sono stati, nel tempo, sottoposti a chiarimenti ministeriali, che sono sfociati in vari Interpelli.
Al riguardo, si ricordano, tra gli altri, gli Interpelli sulle mansioni per “pompe funebri” (Int. 9/2014), “personale di servizio negli alberghi (Int. 17/2014) ”, “addetto ai call center” (Int. 10/2014) e “autisti soccorritori” (int. 7/2014). Il “lavoro a chiamata” resta applicabile alle condizioni già previste dalla normativa previgente al D.lgs. 81/2015 (ad esempio, la regola che impone il limite di 400 giornate nel triennio introdotta dal DL 76/2013).
A disposizione per approfondimenti

LAVORO A CHIAMATA-INDENNITA' DI DISPONIBILITA'

Quesito:
Come si determina l’indennità di disponibilità, nel vigore delle nuove norme sul lavoro a chiamata, se il Lavoratore si è reso “disponibile” ai sensi dell’art. 13.4°comma D.lgs. 81/2015?

Risposta:
La disciplina non è mutata, nel passaggio dal D.lgs. 276/03 al D.lgs. 81/2015.
L’art. 16 demanda ai CCNL la determinazione dell’indennità di disponibilità che non deve essere comunque inferiore ai parametri stabiliti da decreto del Ministero del Lavoro, che dovrà essere emanato a seguito dell’entrata in vigore del D.lgs. 81/2015.
Al momento, tale dm non è stato emanato. In via transitoria, resta pertanto in vigore il dm 10/3/2004 (emanato nelle more del D.lgs. 276/03) per espressa previsione “transitoria” dell’art. 55.3°comma D.lgs. 81/2015.
In forza di tale Dm, la quota minima dell’indennità di disponibilità si determina come segue:

Nel contratto di lavoro intermittente, la misura dell'indennità mensile di disponibilità, divisibile in quote orarie, corrisposta al lavoratore per i periodi nei quali lo stesso garantisce la disponibilità al datore di lavoro in attesa di utilizzazione, determinata nel 20% della retribuzione prevista dal CCNL applicato. La retribuzione mensile da prendere come base di riferimento per la determinazione dell'indennità di cui all'art. 1, costituita da: -Minimo tabellare; -Indennità di contingenza; -E.T.R.; -Ratei di mensilità aggiuntivi. Per la determinazione delle quote orarie si assume come coefficiente divisore orario quello del CCNL applicato.

DA RICORDARE LA SPECIALE REGOLA SULL’INDENNITA’ DI DISPONIBILITA’ NEL CCNL STUDI PROF (ART. 57.U.C.):
Il valore minimo dell'indennità di disponibilità viene determinata nella misura del 30% della retribuzione mensile. La base di calcolo è costituita dalla normale retribuzione di cui all'art. 117 del presente CCNL e dai ratei di mensilità aggiuntive.
Si esclude, come noto, a tale indennità natura corrispettiva (e retributiva), avendo questa come correlativo non un’obbligazione di fare, ma di “non fare”.
A disposizione per approfondimenti

giovedì 10 dicembre 2015

TRATTAMENTO FISCALE DEI COMPENSI PER AMMINISTRATORI: LE DISPOSIZIONI DELL'AGENZIA DELLE ENTRATE

La materia dei “compensi per Amministratori di Società” è materia magmatica, oggetto di continui aggiustamenti giurisprudenziali e foriera di notevoli incertezze.
L'operatività di Studio deve, comunque, tenere conto che, sulla materia, l’Agenzia delle Entrate ha emesso un compendio dedicato a questa fattispecie, che riepiloga quanto segue:

-La normativa applicabile e le coordinate interpretative principali (con questo, prendendo anche “partito” per certe pronunce della Cassazione rispetto ad altre, cosa molto discutibile);
-I poteri di accertamento dell’Agenzia. In allegato, si riporta testo integrale e ufficiale. In questa sede, basterà un breve riepilogo:
- Ex. art. 60 TUIR, I Compensi dell’Imprenditore Individuale non sono deducibili (nemmeno per attività prestata da Coniuge, Figli, Affidati o Affiliati minori di età o permanentemente inabili al lavoro, ascendenti, familiari partecipanti all’impresa familiare);
- Ex. art. 95.3°comma, sono deducibili i compensi degli Amministratori di Società cui sia applicabile l’IRES: essenzialmente, Società di Capitali, in nome collettivo, accomandita semplice; - Il compenso, ove deducibile, si deduce a fronte del cd “principio di cassa allargato”, in analogia con i redditi da lavoro dipendenti e collaboratori;
- Il compenso, ove deducibile, deve rispettare le condizioni ex. art. 109.1°comma TUIR (inerenza costo, imputazione a conto economico, certezza/determinabilità dell’onere: condizione, quest’ultima, che viene intesa nel senso di imporre la deducibilità solo nel caso in cui il compenso sia predeterminato nello Statuto, ovvero determinato in apposita delibera dedicata, non conglobabile nella delibera di approvazione del bilancio);
- L’Amministrazione Fiscale si riserva di disconoscere i compensi degli Amministratori ove appaiano insoliti, sproporzionati, ovvero strumentali all’ottenimento di indebiti vantaggi.

E’ evidente che, per la prassi amministrativa corrente, queste indicazioni costituiscono un punto di riferimento ineliminabile (salvo casi evidenti di disapplicazione giurisprudenziale, o di nuove disposizioni amministrative).
A disposizione per approfondimenti.

venerdì 4 dicembre 2015

LAVORO A TERMINE E LIMITI QUANTITATIVI, IL CASO DELL'APPRENDISTATO-FLASH

In merito all’apprendistato, la Circolare Min. Lav. 18/2014 aveva senz’altro ammesso i contratti di apprendistato nella base di calcolo dei “contratti a tempo indeterminato” rilevante per l’applicazione dei “limiti quantitativi”.
Entrava, poi, nel merito dell’interpretazione di una particolare norma, l’art. 7.3°comma D.lgs. 167/2011 (Testo Unico sull’apprendistato), di una norma che, a prima lettura, avrebbe potuto essere interpretata come limitatrice dei “limiti quantitativi” dei contratti a termine, la Circolare 18/2014 statuiva quanto segue:

(…) Il contratto di apprendistato è esplicitamente definito, dall'art.1, comma 1, del D.Lgs. n. 167/2011 quale "contratto di lavoro a tempo indeterminato" e che la disposizione di cui all'art.7, comma 3, del medesimo Decreto - secondo cui "i lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l'applicazione di particolari normative e istituti" - fa comunque salve "specifiche previsioni di legge". Inoltre l'esclusione degli apprendisti nasce, anche nell'ambito del D.Lgs. n. 167/2011, quale disposizione per favorirne l'assunzione e, pertanto, un diverso orientamento finirebbe per disincentivare il ricorso all'istituto. Gli apprendisti non andranno invece computati, evidentemente, se assunti a tempo determinato nelle specifiche ipotesi di cui all'art.4, comma 5 e di cui al nuovo comma 2 quater dell'art. 3 del D.Lgs. n.167/2011.

Sono ancora valide queste indicazioni nel vigore del D.lgs. 81/2015, ai fini dell’applicazione dell’art. 23?
La risposta deve essere positiva, dato che l’art. 47.3°comma riproduce una disposizione assolutamente identica, quanto a forma e contenuto: Fatte salve le diverse previsioni di legge o di contratto collettivo, i lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l'applicazione di particolari normative e istituti.
A queste condizioni, riteniamo tuttora valide, per la valorizzazione dell’apprendistato quale “contratto a tempo indeterminato” ai fini dei “limiti quantitativi” ex art. 23 D.lgs. 81/2013, le indicazioni sopra riportate della Circolare Min. Lav. 18/2014.
A disposizione per approfondimenti

LIMITI QUANTITATIVI E CONTRATTI COLLETTIVI: PROBLEMI DI DIRITTO INTERTEMPORALE-IL CASO DEL CCNL STUDI PROFESSIONALI

Quesito:
Al 25/6/2015, nel CCNL Studi Professionali vigevano speciali regole riguardanti i “limiti quantitativi”. Queste norme di CCNL devono considerarsi in vigore, ovvero abrogate con il sopravvenire del nuovo art. 23 D.lgs. 81/2015?
Si consideri ulteriormente che, nel vigore delle nuove norme, non è stata riprodotta quella speciale norma di diritto intertemporale che, nell’economia della l. 78/2014, regolava i casi in cui i “limiti quantitativi” risultassero già disciplinati dalla contrattazione collettiva. La norma in questione recitava:

"In sede di prima applicazione del limite percentuale (...) conservano efficacia, ove diversi, i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro".

La mancata riproduzione di tale norma nel corpo del D.lgs. 81/2015 come deve essere interpretata? Come prova che le disposizioni di CCNL previgenti al 25/6/15 devono intendersi abrogate? O in quale altro modo?

Risposta:
Il punto è effettivamente delicato e su di esso dovrà pronunciarsi il Ministero del Lavoro (che non ci consta essersi pronunciato, per il momento).
In precedenti contributi, abbiamo ipotizzato che la sovrapposizione tra CCNL e D.lgs. 81/2015 debba seguire le regole ordinarie (art. 15 preleggi), ovvero nel segno della prevalenza della successiva legge (lex posterior) incompatibile con la normativa previgente (di legge e di CCNL); si conclude, così, per la disapplicazione delle disposizioni di CCNL incompatibili con le sopraggiunte disposizioni di leggi (in questo senso, abbiamo ritenuto la disposizione sulla proroga ex. art. 21 D.lgs. 81 prevalente sulla difforme, antecedente, disposizione del CCNL Studi Prof.).
Un simile stato di cose vale fintanto che la stessa legge non ammetta espressamente e chiaramente la coesistenza delle vecchie norme. Così, quando il D.lgs. 81 “fa salve” le diverse disposizioni di CCNL, tale riferimento deve coerentemente intendersi sia ai CCNL successivi al D.lgs. 81, sia ai CCNL antecedenti.
Questo vale per la disciplina dei 36 mesi (art. 19.2°comma), per la disciplina dei rinnovi (art. 21.2°comma), sia per il “diritto di precedenza” (art. 24).
Crediamo che questo sia anche il caso dei “limiti quantitativi” che, all’art. 23 così dispone:

Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi non possono essere assunti lavoratori a tempo determinato in misura superiore al 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza …

Il fatto che nell’attuale corpo del D.lgs. 81 non sia introdotta una norma come quella del vecchio DL Poletti non muta queste conclusioni, per le ragioni che qui di seguito si motivano.
Tale ultima norma prevedeva:

"in sede di prima applicazione del limite percentuale (...) conservano efficacia, ove diversi, i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro".

La cancellazione di questa norma ci pare non possa spiegare effetti sull’assetto del lavoro a termine ex D.lgs. 81/2015, per la semplice ragione che quella disposizione era concepita per gestire, in modo assolutamente peculiare e speciale, un diritto transitorio che trovava la sua ragione d’essere nell’assetto contrattuale introdotto dal DL Poletti e del quale oggi possiamo ritenere completamente esauriti gli effetti. Quella disciplina transitoria, assolutamente “speciale”, si giustificava in considerazione del fatto che il DL Poletti “rivoluzionava” l’assetto dei rapporti a termine, rendendo vincolanti (e sanzionati) i “limiti quantitativi”, fino ad allora istituto negletto e di mera rilevanza teorica (se non platonica).
Veniva così radicalmente a mutare la gestione complessiva dei contratti a termine e, specie in sede di conversione del Decreto, si ritenne necessario consentire ai Datori di contare su un lasso di tempo utile per resettare i rapporti a termine, esaurire quelli sovrabbondanti e andare a regime, al 1/1/2015, con un nuovo criterio di programmazione dei contratti. In quest’ottica anche la “salvaguardia” dei “diversi” limiti quantitativi previsti dai CCNL trova un senso, che non può essere in nessun caso riprodotto allo stato attuale.
In quell’occasione si trattava di ammortizzare l’impatto sul Datore di lavoro di quelle disposizioni di CCNL sui “limiti quantitativi” che cessavano di essere mere “formule di stile”, ma divenivano vincoli molto forti (e sanzionati); in questo senso, le disposizioni di CCNL erano “fatte salve”, ma contemporaneamente se ne differiva la rilevanza sanzionatoria al 1/1/2015, sterilizzandone così parzialmente l’efficacia in via sanzionatoria.
La chiara e manifesta intenzione legislativa era quella di conservare le norme di CCNL, ma propiziandone contemporaneamente un “raccordo” con il nuovo rigoroso assetto sanzionatorio, propiziando medio tempore un tranquillo periodo transitorio, per consentire ai Datori di riassestarsi e aggiornarsi alle nuove regole.
Si tratta di una problematica tipicamente connessa a vicende applicative proprie del Decreto Poletti, ed evidentemente non riproducibili nel D.lgs. 81/2015: anche perché il D.lgs. 81 non “rivoluziona” (come il Dl Poletti) la disciplina del lavoro a termine, ma non fa che confermarla quale disciplina già a regime, così come era delineata a partire dal 1/1/2015.
Per il D.lgs. 81/2015, il diritto intertemporale tra CCNL e sopravvenute disposizioni di legge può ben essere ricostruito (in conformità al “diritto comune”) come sopra.

giovedì 3 dicembre 2015

ASTENSIONE DEI GENITORI PER MALATTIA DEL BAMBINO (ART. 47 D.LGS. 151/2001): LA DISCIPLINA DOPO IL JOBS ACT

Quesito:
Allo stato attuale, la previsione del “congedo per malattia del bambino” disciplinata dall’art. 47 permette l’astensione dei genitori dal terzo all’ottavo anno di vita del bambino. Prima del D.lgs. 80/15, il limite massimo di “8 anni” coincideva con il limite massimo di fruizione dell’astensione facoltativa. Con il D.lgs. 80/2015, che ha elevato la facoltà di astensione facoltativa dei genitori ex. art. 32 D.lgs. 151/2001 fino al 12° anno di età del bambino (non retribuito, in nessun caso, tra l’8° e il 12° anno), devono intendersi modificati anche i limiti di età massimi del bambino (da 8 a 12) per la fruizione del congedo per malattia ex. art. 47? Oppure, no?

Risposta:
L’art. 47 D.lgs. 151/2001 consente ad entrambi i genitori, in alternativa tra loro e indipendentemente dal fatto che l’altro abbia un suo autonomo diritto, di fruire di permessi non retribuiti per le malattie di ciascun figlio. I genitori, in altre parole, possono assentarsi dal lavoro:

-Per tutta la durata della malattia del bambino, fino al compimento del 3° anno di vita;
-Nel limite di 5 giorni lavorativi all’anno per ciascun genitore, per figli di età compresa tra i 3 e gli 8 anni. Ricordiamo, Il congedo spetta al genitore richiedente anche qualora l'altro genitore non ne abbia diritto.

Ai fini della presente disciplina, per “malattia” del bambino, non si intende solo la fase patologica vera e propria, ma anche la successiva convalescenza (Cass. 4/4/1997 nr. 2953).
In questi casi, né l’INPS, né altri possono effettuare controlli sull’effettivo stato di malattia del bambino.
La certificazione medica di malattia va inoltrata per via telematica direttamente dal Medico curante (SSN o Convenzionato) all’INPS, utilizzando il sistema di trasmissione delle certificazioni per malattia (dm 26/2/2010).
Ai fini della fruizione dei permessi, il Lavoratore comunica direttamente al Medico, all’atto della compilazione della certificazione di malattia, le generalità del genitore che ha scelto di usufruirne.
Allo stato attuale, non possiamo ritenere che detto congedo possa fruirsi oltre l’8°anno di vita del bambino, ovvero fino al 12° anno, come previsto dall’art. 32 modificato dal Jobs Act.
La malattia del bambino insorta durante l’astensione facoltativa, può sospenderne il godimento, e consentire l’astensione ex. art. 47, ricorrendone i presupposti (previa necessaria istanza ed esibizione di documentazione presso l’INPS).

DOPO IL JOBS ACT: Se è vero che, prima del Jobs Act, i limiti di età massimi del minore tra astensione facoltativa ex. art. 32 e astensione per malattia ex. art. 47, coincidevano. Ma non sussiste, allo stato attuale, alcun elemento esegetico o interpretativo per concludere che, modificato il limite di età massimo per l’art. 32, debba ritenersi automaticamente modificato (nello stesso senso, 12 anni) anche il congedo per malattia.
Ciò è impedito dalla tipologia delle norme applicabili e dal procedimento di modifica adottato dal D.lgs. 80/2015, che ha ampliato a 12 anni il limite massimo di età solo per l’astensione facoltativa, senza nulla modificare per l’astensione per malattia (art. 47). Nel silenzio, l’art. 47 non può ritenersi modificato, nemmeno implicitamente, essendo un’ipotesi di congedo distinta e “speciale” dall’art. .32 cit.
Gli stessi rinvii agli art. 35.3-4.5°comma D.lgs. 151. operati dall’art. 49 sono assolutamente circoscritti e riguardano alcuni aspetti particolari di disciplina: particolarmente, il calcolo della base imponibile della contribuzione figurativa, che si calcola come segue:

I periodi di congedo parentale di cui all'articolo 34, comma 3, compresi quelli che non danno diritto al trattamento economico, sono coperti da contribuzione figurativa, attribuendo come valore retributivo per tale periodo il 200 per cento del valore massimo dell'assegno sociale, proporzionato ai periodi di riferimento, salva la facoltà di integrazione da parte dell'interessato, con riscatto ai sensi dell'articolo 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, ovvero con versamento dei relativi contributi secondo i criteri e le modalità della prosecuzione volontaria. Gli oneri derivanti dal riconoscimento della contribuzione figurativa di cui al comma 3, per i soggetti iscritti ai fondi esclusivi o sostitutivi dell'assicurazione generale obbligatoria, restano a carico della gestione previdenziale cui i soggetti medesimi risultino iscritti durante il predetto periodo.
Per i soggetti iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti e alle forme di previdenza sostitutive ed esclusive dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, i periodi non coperti da assicurazione e corrispondenti a quelli che danno luogo al congedo parentale, collocati temporalmente al di fuori del rapporto di lavoro, possono essere riscattati, nella misura massima di cinque anni, con le modalità di cui all'articolo 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, e successive modificazioni, a condizione che i richiedenti possano far valere, all'atto della domanda, complessivamente almeno cinque anni di contribuzione versata in costanza di effettiva attività lavorativa.

Resta valida, pur nel vigore del Jobs Act, l’indicazione della Circolare INPS 109/2000, che aveva fissato nell’ “ottavo compleanno” del bambino (compreso) il limite massimo oltre il quale non è consentito fruire dell’astensione per malattia ex. art. 49 D.lgs. 151/2001.

LAVORO A TEMPO DETERMINATO: IL JOBS ACT (DLGS 81/2015) NON SI APPLICA ALLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Per espressa esclusione da parte dell’art. 29.4°comma D.lgs. 81/2015, le disposizioni sul lavoro a termine nel settore privato di cui al citato articolo non trovano applicazione immediata e diretta per le Pubbliche Amministrazioni, per le quali occorre far riferimento all’art. 36 D.lgs. 165/2001 (Testo Unico Pubblico Impiego) e alle modifiche connesse e sopravvenienti.
A disposizione per approfondimenti, connessi, specialmente, con le leggi di stabilità.

mercoledì 2 dicembre 2015

ART. 35 STATUTO DEI LAVORATORI, COME SI CONTEGGIANO I LAVORATORI A TERMINE

Quesito:
Come si conteggiano i rapporti a termine influenzano il conteggio della “base occupazionale” fissata dall’art. 35 l. 300/70 per l’applicazione dello Statuto dei Lavoratori?

Risposta:
Lo Statuto dei Lavoratori (l. 300/70), particolarmente le garanzie per l’attività sindacale di cui al Titolo III, si applica laddove ricorrono, in capo al Datore di Lavoro, i requisiti dimensionali fissati dall’art. 35 l. 300 cit.
Ecco cosa prevede l’art. 35:

Per le imprese industriali e commerciali, le disposizioni del titolo III, ad eccezione del primo comma dell'articolo 27, della presente legge si applicano a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di quindici dipendenti. Le stesse disposizioni si applicano alle imprese agricole che occupano più di cinque dipendenti. Le norme suddette si applicano, altresì, alle imprese industriali e commerciali che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti. Ferme restando le norme di cui agli articoli 1, 8, 9, 14, 15, 16 e 17, i contratti collettivi di lavoro provvedono ad applicare i principi di cui alla presente legge alle imprese di navigazione per il personale navigante

Per quanto riguarda l’influenza del numero contratti a termine su tale computo, soccorre l’art. 27 D.lgs. 81/2015 (che riproduce il contenuto dell’art. 8 D.lgs. 368/2001, modificato dalla legge 97/2013, con effetti dal 4/9/2013), il quale dispone:

Salvo che sia diversamente disposto, ai fini dell'applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro, si tiene conto del numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato, compresi i dirigenti, impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell'effettiva durata dei loro rapporti di lavoro.

Ciò posto, le conseguenze sono lineari: in presenza di più contratti a termine sviluppatisi nel corso degli ultimi 24 mesi (criterio mobile che va calcolato a ritroso, dal momento in cui sarà necessario effettuare il computo), dovranno essere sommate le durate dei singoli rapporti. Pertanto, se nel biennio precedente sono stati stipulati contratti a tempo determinato di 8, 10, 9 mesi, occorrerà procedere alla somma dei periodi e dividere la somma (27) per 24. Si otterrà così 1.12, arrotondato per difetto ad 1 unità lavorativa.

NEL CONTEGGIO SI COMPUTANO ANCHE I LAVORATORI IN MOBILITA’:
Questo, per disposizione del DL 76/2013, con effetto dal 23/8/2013. Ora, per effetto delle disposizioni del Jobs Act, questa previsione si trova compendiata nell’art. 29.1°comma lett. a) D.lgs. 81/2015.
La norma dell’art. 27 D.lgs. 81/2015 è norma generalmente applicabile per il conteggio dei lavoratori a termine, ai fini dei vari limiti dimensionali di legge.
Si applica, salvo che non sia diversamente previsto: come nel caso della legge sul collocamento dei disabili, che contiene norme speciali di conteggio/valorizzazione del lavoro a termine, al fine della “base occupazionale” per le assunzioni obbligatorie.

COSA SI INTENDE PER “UNITA’ PRODUTTIVA”, NOTE:
Per giurisprudenza consolidata, per “unità produttiva” si intende quella entità aziendale che si caratterizza per sostanziali condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica ed amministrativa, tali che in essa si svolga e si concluda il ciclo relativo, o una frazione, o un momento essenziale dell’attività produttiva aziendale.

OBBLIGO DI FEDELTA', QUANDO È VIOLATO DAL DIPENDENTE

Si coglie l’occasione di segnalare una recentissima sentenza (sent. nr. 14304/2015), con la quale la Corte di Cassazione ha confezionato un’interpretazione molto severa del cd “obbligo di fedeltà” che, ex. art. 2105 Codice Civile, incombe sul lavoratore dipendente. Eccone, qui di seguito, un brevissimo compendio:

“ (…) L’obbligo di fedeltà del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dal testo dell'art. 2105 c.c. cit., ed impone al lavoratore di tenere un comportamento leale nei confronti del proprio datore di lavoro, astenendosi da qualsiasi atto idoneo a nuocergli anche potenzialmente. Ai fini della violazione dell’obbligo di fedeltà incombente sul lavoratore, è sufficiente la mera preordinazione di una attività contraria agli interessi del datore di lavoro anche solo potenzialmente produttiva di danno. E’ perciò indubbio che l'obbligo sia violato quando il lavoratore subordinato svolga attività in favore di terzi, peraltro operanti nel medesimo settore della società datrice di lavoro, quale che sia il contenuto, più o meno complesso e impegnativo, di tale attività. Il pericolo attuale e continuo per gli interessi del datore giustifica altresì il licenziamento in tronco (Cass. 26 agosto 2003 n. 12489; Cass., 8 luglio 1995 n. 7529; Cass., 1 giugno 1988, n. 3719)”.

La violazione di tale dovere legittima il licenziamento “in tronco”, per giusta causa ex. art. 2119 C.C., del Dipendente.
Link: http://www.tcnotiziario.it/Articolo/Index?idArticolo=317980&tipo=&cat=ULTLAV&fonte=Teleconsul.it%20-%20Ultimissime%20Lavoro

venerdì 27 novembre 2015

LAVORO A TERMINE, COME DISTINGUERE LA PROROGA DALLA "MERA CONTINUAZIONE"

Quesito:
Alle previsioni della “proroga” e della “continuazione oltre il termine”, il D.lgs. 81/2015, ponendosi sulla scia del D.lgs. 368/2001 dedica due distinte disposizioni, l’art. 21 e l’art. 22 D.lgs. 81/2015.
Se la distinzione è agevole in teoria, meno agevole la distinzione può essere in pratica.
Come dobbiamo considerare, ad esempio, il caso di rapporto a termine che continui oltre la scadenza per più di 10 gg. e che risulti tardivamente oggetto di una comunicazione di proroga al Centro per l’Impiego (ovviamente, in sanzione)?
Si applica, in questo caso, la maggiorazione retributiva del 20%?

Risposta: L’art. 22 D.lgs. 81/2015, ovvero la previsione della “prosecuzione di fatto del rapporto” prevede:

1. Fermi i limiti di durata massima di cui all'articolo 19, se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al 20 per cento fino al decimo giorno successivo e al 40 per cento per ciascun giorno ulteriore.
2. Qualora il rapporto di lavoro continui oltre il trentesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il cinquantesimo giorno negli altri casi, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.

Ora, tale disciplina pare applicarsi per lo più in via residuale, laddove non sia possibile giustificare in altro modo la prosecuzione del rapporto a termine.
Laddove, invece, in cui sia documentabile la volontà delle parti di prorogare comunque il rapporto (es. da scrittura, da comunicazione via mail etc.), riteniamo coerente applicare gli effetti della proroga ex. art. 21, pur se tardivamente comunicata al Centro per l’Impiego, non gli effetti dell’art. 22 D.lgs. 81.
Concludendo, solo mancando qualsiasi atto o elemento che attesti la proroga, si applicherà la disciplina dell’art. 22 cit., unitamente alle conseguenti maggiorazioni retributive.

giovedì 26 novembre 2015

SUCCESSIONE DI CONTRATTI A TERMINE E PATTO DI PROVA

Quesito:
E’ molto frequente che un’Azienda assuma un Dipendente a termine in più momenti. Deve fissare sempre il “patto di prova”? O, nelle successive assunzioni, deve ritenersi illegittimo?

Risposta:
Il caso non è disciplinato dal Codice Civile. Come già precisato in una precedente mail, questa materia è di massima rimessa all’autonomia contrattuale individuale delle parti, secondo uno schema che, fissato fin dal RDL 1825/24 e poi rifluito nel Codice Civile del 1942, non è stato al momento abbandonato.
Il giudizio di legittimità o illegittimità del patto di prova nel caso di successione di più contratti a termine tra lo stesso Lavoratore e lo stesso Dipendente va, pertanto, condotto in conformità al “diritto comune” dei contratti e, in particolari, valutando se, nel caso di specie, il patto di prova risulta finalizzato ad una causa contrattuale meritevole di tutela (art. 1343 C.C.).
Su questa posizione, si era attestata la stessa Corte Costituzionale che, con sentenza nr. 189/1980, aveva precisato che il periodo di prova deve intendersi finalizzato a consentire la verifica delle attitudini del Dipendente al rapporto di lavoro (aspetti confermati da Cass. nr. 5016/2004 e nr. 8579/2004).
Questo stato di cose ha portato la giurisprudenza a sviluppare una valutazione fluida della legittimità del patto di prova nella successione dei contratti a termine, che si è sviluppata in molteplici dimensioni e sfaccettature.
Ad esempio, se i contratti a termini che si avvicendano in successione hanno per oggetto le stesse mansioni, la Cassazione ha riconosciuto non giustificata (quindi, nulla) l’apposizione del patto di prova (Cass. Sez. lav. 10440/2012).
Non così, invece, nel caso in cui le mansioni siano le stesse, ma, da un contratto a termine all’altro, sia variata la località di lavoro rispetto al luogo di residenza (es. il caso del Lavoratore di Ferrara che ha lavorato a termine come elettricista a Ferrara e che successivamente sia assunto a Milano presso la Casa Madre del Datore di Lavoro).
In queste circostanze, la giurisprudenza ravvisa un elemento di “novità”, perché determina un rilevante cambiamento di vita del Dipendente (in termini di vita familiare, personale etc.) ed è stato ritenuto legittimo e giustificato il patto di prova per verificare l’effettiva attitudine del Dipendente al nuovo impiego (Cass. Sez. Lav. 3/7/2015 nr. 13672).
Più complesso il cambio appalti, dove, di norma, il patto di prova non dovrebbe essere giustificato, attesa la continuità delle mansioni del personale nel passaggio da un’Azienda Cedente all’Azienda subentrante. In questo caso, però, la giurisprudenza ritiene legittimo il patto se previsto dalla contrattazione collettiva (Cass. 17371/2015).
A disposizione per approfondimenti

mercoledì 25 novembre 2015

LAVORO A TERMINE: SE IL TERMINE DEL PERIODO DI PROVA COINCIDE COL TERMINE DEL CONTRATTO

Quesito:
Tizio viene assunto per 6 mesi dalla Ditta di cui è titolare Caio. Il suo contratto (per effetto di CCNL) prevede un periodo di prova di pari durata. Il patto di prova deve considerarsi illegittimo?

Risposta (tratta da Euroconference, 19/11/2015, articolo Il patto di prova nei contratti a termine):
Sicuramente, tale contrattualistica è anomala e distorta: se, infatti, la fissazione di un termine finale al contratto di lavoro subordinato a tempo determinato mira a garantire una stabilità (almeno temporanea) al rapporto di lavoro, la sovrapposizione del periodo di prova sicuramente aggira questa temporanea stabilità, poiché in questo periodo il rapporto può essere sciolto liberamente.
Anche nell’assunzione a termine (come quella a tempo indeterminato), l’impiego deve avvenire in due fasi: la prima fase, dove è possibile la “prova”, ossia la verifica delle attitudini del lavoratore; una seconda fase, dove il rapporto, per quanto a termine, si considera consolidato nei contenuti professionali ed economici.
Non esiste, al riguardo, una specifica norma di legge che garantisca l’adeguamento del periodo di prova nei contratti a termine (nemmeno il RDL 1825/1924, la prima organica normativa sul contratto di lavoro subordinato in Italia, aveva disciplinato questa ipotesi).
E questo, per il semplice ed elementare motivo, che il Codice Civile (scritto nel 1942) concepisce la “prova” come “elemento accidentale del contratto”, modulabile a discrezione delle esigenze delle parti. In questo senso, la legge (ex. art. 2096 Codice Civile ed art. 10 l. 604/66) disciplina il termine del periodo di prova usualmente definito nel massimo: nulla, pertanto, impedisce alle parti di definire liberamente un periodo minore: ricordiamo che, sul punto, ovvero sulla determinazione del periodo di prova, l’autonomia delle parti (Datore di Lavoro e Lavoratore) è piena, purchè il periodo di prova rientri nei massimi previsti dal CCNL (o, in mancanza, dalla legge: 6 mesi). Rimettendo, pertanto, il Codice Civile alle parti il modellamento del periodo di prova, nulla impedisce che siano le parti stesse del contratto di lavoro a termine a modellare il periodo di prova in modo adeguato alla tipologia di assunzione (e certamente, l’assunzione a termine può essere un’occasione utile per esercitarsi in questo).
Tutto questo, salvo che il CCNL non espropri le parti tale autonomia contrattuale (ad esempio, fissando un periodo di prova fisso, non modificabile), o non fissi un periodo minimo dove è precluso il recesso.
Non mancano, comunque, le esemplificazioni utili della contrattazione collettiva.
-Art. 27.10°COMMA, CCNL CEMENTO INDUSTRIA: I periodi di prova di cui all'art. 21 sono confermati per i rapporti con contratto a tempo determinato di durata pari o superiore a 6 mesi. Per contratti di durata inferiore i periodi ivi previsti sono ridotti del 50% con una durata, in ogni caso, non inferiore ad un mese. Decorso il periodo di prova senza che nessuna delle parti abbia dato regolare disdetta, il lavoratore avrà diritto a prestare l'attività lavorativa per l'intero periodo previsto dal contratto a meno che non intervenga una giusta causa di recesso”.
-ART. 27.2°COMMA CCNL CALZATURE:Per le assunzioni a termine di durata fino a sei mesi, la durata del periodo di prova di cui sopra è ridotta della metà”.
-ART. 7.4°COMMA CCNL ORIFICERIA INDUSTRIA (SEZ. “DISCIPLINA COMUNE-Contratti di natura temporanea): “Il periodo di prova di cui alle specifiche normative della Disciplina speciale, Parte prima e Parte terza, non potrà avere una durata superiore al 40% della durata del contratto a tempo determinato, fermi restando i limiti massimi previsti nelle suddette normative; esso non potrà essere reiterato da parte della stessa azienda in caso di nuova assunzione sia con contratto a termine che con contratto a tempo indeterminato entro 12 mesi per le medesime funzioni”.
Le Parti, nel modellare il patto di prova al tempo determinato, possono prendere spunto da esempi similari. A disposizione per aggiornamenti

martedì 24 novembre 2015

LAVORO A TERMINE, IL DIRITTO DI PRECEDENZA NEL CCNL STUDI PROF

Anche il “diritto di precedenza” nel rapporto a tempo determinato segue una peculiare disciplina nel settore Studi Prof. Allo stato, infatti, l’art. 53.9-12 commi CCNL stabilisce:

I lavoratori assunti in ottemperanza del presente articolo avranno titolo preferenziale per il passaggio da tempo determinato a tempo indeterminato in caso di nuove assunzioni, con le stesse mansioni, alle condizioni previste dal D.Lgs. 368/2001.
A tal fine i datori di lavoro devono attenersi alla seguente graduatoria:
- lavoratori ai quali il contratto a tempo determinato è scaduto negli ultimi 6 (sei) mesi con precedenza al lavoratore che ha terminato il rapporto da più tempo;
- lavoratori ai quali il contratto a tempo determinato è scaduto in un periodo superiore agli ultimi 6 mesi e con precedenza al lavoratore che ha terminato il rapporto da più tempo;
I lavoratori assunti con più di un contratto a termine dallo stesso datore di lavoro, avranno titolo preferenziale per ulteriori assunzioni a tempo determinato, per lo svolgimento delle medesime mansioni, nei dodici mesi successivi dalla cessazione dell'ultimo contratto.
Tale diritto deve essere esercitato dal lavoratore entro tre mesi dalla cessazione dell'ultimo rapporto.
Il diritto di precedenza deve essere richiamato nel contratto di lavoro individuale.

Una disciplina leggermente diversa è quella prevista dall’art. 24.1°comma:

Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi, il lavoratore che, nell'esecuzione di uno o più contratti a tempo determinato presso la stessa azienda, ha prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine.

Anche qui, l’inciso di legge “salva diversa disposizione dei contratti collettivi”, che pare riferirsi ai CCNL “vigenti” al 25/6/15, sembra far sì che il diritto di precedenza resti regolato dal CCNL in vigore al 25/6/2015 (data di entrata in vigore del D.lgs. 81/2015).
L’art. 24 si applica per le parti non disciplinate dal CCNL (es. maternità).
Si noti che nel settore Studi prof. la disciplina del “diritto di precedenza” è diversa dal consueto: il Datore non sembra vincolato solo dalla manifestazione di volontà del Lavoratore di avvalersi del diritto di precedenza. Sembra, al contrario, farsi discendere in capo al Professionista l’onere della previa offerta del posto di lavoro (a termine, a tempo indeterminato), in relazione a specifiche decorrenze di scadenza.
Il punto è evidentemente delicato, e merita il massimo di approfondimento e chiarimento possibile.
A disposizione per aggiornamenti e approfondimenti

LAVORO A TERMINE, LA NON DISCRIMINAZIONE DEI DIPENDENTI A TEMPO DETERMINATO

Si coglie l’occasione di rilevare come, confermando quanto previsto dal vecchio art. 6 D.lgs. 368/2001, l’art. 25 D.lgs. 81/2015 codifica in questi termini il cd “principio di non discriminazione”:

1. Al lavoratore a tempo determinato spetta il trattamento economico e normativo in atto nell'impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo prestato, sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a tempo determinato.
2. Nel caso di inosservanza degli obblighi di cui al comma 1, il datore di lavoro è punito con la sanzione amministrativa da 25,82 euro a 154,94 euro. Se l'inosservanza si riferisce a più di cinque lavoratori, si applica la sanzione amministrativa da 154,94 euro a 1.032,91 euro.

La recente dispensa Confprofessioni dedicata al lavoro a termine nel settore Studi Prof. fa notare (coerentemente) che tale norma esige non solo l’inquadramento del Dipendente a termine in coerenza con i trattamenti economici e normativi disposti dal CCNL (retribuzione, livelli di inquadramento e classificazione), ma anche con i trattamenti (economici e normativi) “in atto” presso la Struttura. Questa disposizione può porre alcuni problemi (come segnalato da Confprofessioni) in caso di trattamenti come i “buoni pasto”, ad esempio.
Allo stato, e nell’assenza di chiarimenti ministeriali, possiamo ritenere che il Datore non possa negare al Dipendente a termine il “buono pasto”, ove esista una regolamentazione interna (collettiva o aziendale) che lo riconosca in modo generalizzato e non ad personam. In questo caso, la mancata corresponsione al lavoratore a termine può essere soggetta alla sanzione amministrativa (non così irrisoria) prevista dalla legge.
Non così nei casi in cui il “buono pasto” abbia una valenza di fringe benefit (incentivo marginale) ad personam: la peculiare rilevanza “personale” di tale emolumento dovrebbe escludere ogni automatica estensione al lavoratore a termine.
Ma restiamo in attesa di chiarimenti ministeriali.
A disposizione per aggiornamenti e approfondimenti.

venerdì 20 novembre 2015

ESONERO INPS EX.ART.1.118 COMMA L.190/2014: IL MANCATO SUPERAMENTO DEL PERIODO DI PROVA, QUANDO INIBISCE IL BENEFICIO

Caso:
Tizio si appresta ad assumere Caio a tempo indeterminato e conta sulla fruizione dell’esonero INPS. Caio è stato da poco licenziato per mancato superamento del periodo di prova, pur nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Può Caio, a queste condizioni, essere agevolato?

Risposta:
L’art. 1.118°comma l. 190/2014 prevede quanto segue:

L'esonero di cui al presente comma spetta ai datori di lavoro in presenza delle nuove assunzioni di cui al primo periodo, con esclusione di quelle relative a lavoratori che nei sei mesi precedenti siano risultati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro …

La Circolare INPS, in conformità al “diritto comune”, ha precisato che la presenza di un periodo di prova non osti alla configurazione di un rapporto a tempo indeterminato.
Pertanto, se tale rapporto è venuto a cadere (e a sciogliersi per “mancato superamento della prova”) nei 6 mesi antecedenti, l’ultima assunzione non può beneficiare dell’esonero INPS. Quindi, Tizio, per l’assunzione di Caio, non potrà applicare il beneficio ex. art. 1.118°comma l. 190/2014.
Ecco il testo di interesse della Circolare INPS:

“ (…) Anche laddove il precedente rapporto di lavoro - intercorso nei sei mesi precedenti l'assunzione - sia stata risolto per mancato superamento del periodo di prova ovvero per dimissioni del lavoratore, non si ha diritto alla fruizione dell'esonero. In proposito, si ricorda come l'istituto del periodo di prova abbia lo scopo di consentire al lavoratore di valutare l'esperienza lavorativa offerta e al datore di lavoro di rilevare l'adeguatezza delle competenze e delle effettive capacità del prestatore rispetto alle specifiche esigenze produttive. Ciononostante il rapporto di lavoro, pur sottoposto ad una condizione - il superamento del periodo di prova - deve essere considerato a tempo indeterminato sin dall'origine”

giovedì 19 novembre 2015

ESONERO INPS EX.ART.1.118 COMMA L.190/2014: COME OPERA NEI RAPPORTI PART TIME

Quesito:
In caso di assunzioni a tempo indeterminato part time, l’esonero INPS ex. art. 1.118°comma l. 190/2014 come si applica?

Risposta (Circ. INPS 178/2015):
Nel caso di specie, l’art. 1.118°comma l. 190/2014 così dispone:

L'esonero di cui al presente comma spetta ai datori di lavoro in presenza delle nuove assunzioni di cui al primo periodo, con esclusione di quelle relative a lavoratori che nei sei mesi precedenti siano risultati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro, e non spetta con riferimento a lavoratori per i quali il beneficio di cui al presente comma sia già stato usufruito in relazione a precedente assunzione a tempo indeterminato.

E’ quest’ultimo inciso (da noi sottolineato) che ha suscitato le interpretazioni più restrittive.
Considerate due assunzioni part time, avvenute in tempi diversi, di cui una avente i requisiti per l’agevolazione de qua (assenza di rapporti a tempo indeterminato nei precedenti 6 mesi …), l’indirizzo più restrittivo della dottrina riteneva preclusa la fruizione del beneficio per la seconda assunzione: proprio perché l’art. 1.118° cit. preclude l’agevolazione a quei lavoratori “per i quali il beneficio di cui al presente comma sia già stato usufruito in relazione a precedente assunzione a tempo indeterminato”.
La recente Circolare INPS ha confermato questa interpretazione, la più letterale e restrittiva:

(…) Con riferimento ai rapporti di lavoro part time a tempo indeterminato, l'esonero, nei limiti e alle condizioni illustrate nella circolare n. 17/2015, spetta anche nei casi in cui il lavoratore sia assunto da due diversi datori di lavoro in relazione ad ambedue i rapporti, purché la data di decorrenza dei predetti rapporti di lavoro sia la medesima. In caso di assunzioni differite, il datore di lavoro perderebbe, infatti, con riguardo al secondo rapporto di lavoro part-time, il requisito legittimante l'ammissione all'agevolazione in oggetto”.

Unica, eccezione, quindi, il caso che le due diverse assunzioni part time siano simultanee.

ESONERO INPS EX.ART.1.118 COMMA L.190/2014: QUANDO IL LAVORATORE HA PRESTATO SERVIZIO ALL'ESTERO

Caso:
Tizio intende assumere Caio, quale dipendente a tempo indeterminato usufruendo dell’esonero INPS ex. art. 1.118°comma l. 190/14. Nei sei mesi precedenti, però, Caio è stato dipendente in Francia, assicurato presso la gestione pensionistica pubblica francese. Questa circostanza deve intendersi ostativa o meno al riconoscimento dell’agevolazione citata?

Risposta (Circ. INPS nr. 178/2015):
L’art. 1.118°comma l. 190/2014 prevede quanto segue:

"L'esonero di cui al presente comma spetta ai datori di lavoro in presenza delle nuove assunzioni di cui al primo periodo, con esclusione di quelle relative a lavoratori che nei sei mesi precedenti siano risultati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro … "

La Circolare INPS ha escluso recisamente che, nel caso di cui sopra, non spetti l’agevolazione de qua:

(…) La sussistenza del predetto requisito [assenza di rapporti a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti, nota nostra] va valutata a prescindere dalla circostanza che la tutela dei diritti assicurativi obbligatori fosse assicurata presso una gestione pensionistica italiana o estera. Pertanto, l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato all'estero nei sei mesi precedenti l'assunzione non consente la fruizione dell'esonero contributivo anche laddove, sulla base della legislazione internazionale, il precedente rapporto di lavoro non contemplasse l'obbligo assicurativo nei confronti di una gestione previdenziale nazionale”.

Questa conclusione non merita particolari commenti, essendo perfettamente coerente alla lettera del testo di legge che connette le “assunzioni a tempo indeterminato” costituite fino a 6 mesi prima, impeditive alla fruizione dell’esonero INPS di cui si tratta, “presso qualsiasi Datore di Lavoro”.
Dove “qualsiasi Datore di Lavoro” sta, evidentemente, per “Datore italiano soggetto ad INPS”, “Datore estero soggetto ad altra Previdenza Pubblica Obbligatoria”.

mercoledì 18 novembre 2015

MATERNITA', ASTENSIONE OBBLIGATORIA: QUANDO E' VIETATO IL LAVORO ALLA LAVORATRICE MADRE DOPO IL DLGS 80/2015

Quesito:
In che modo il D.lgs. 80/2015 ha inciso sull’obbligo ex. art. 16 D.lgs. 151/2001 delle Lavoratrici madri di astensione dal Lavoro?

Risposta:
Su questo aspetto, l’intervento del D.lgs. 80/2015 è stato minimo. Il Jobs Act (ritoccando l’art. 16 e introducendo ex novo l’art. 16bis) si è limitato a precisare che è vietato adibire al lavoro le donne:

-Durante i 2 mesi precedenti la data presunta del parto, salvo che le Lavoratrici non decidano di astenersi dal lavoro, a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei 4 mesi successivi al parto*;
-Ove il parto avvenga oltre la data presunta, per il periodo intercorrente tra tale data e la data effettiva del parto*;
-Durante i 3 mesi dopo il parto;
-Durante i giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta.
Tali giorni si aggiungono al periodo di congedo di maternità dopo il parto, anche qualora la somma dei periodi superi il limite complessivo di 5 mesi.

*CONTEGGIO MESI MATERNITA’: Per quanto riguarda il conteggio che precede il parto, il Datore di Lavoro deve calcolare i 2 mesi a ritroso, senza includere nel computo la data presunta di nascita indicata nel certificato di gravidanza (Msg INPS nr. 18311/2007).

Esempio:
-Data presunta del parto, 15 agosto;
-Astensione precedente il parto, dal 15/6 al 14/8 (compreso);
-Astensione successiva al parto: se il bambino nasce effettivamente dopo il 15/8, il periodo complessivo ordinario di astensione facoltativa sarà pari a 5 mesi ed 1 giorno (15/6-15/11).

L’art. 16bis disciplina un caso particolare, di rinvio e sospensione del congedo di maternità, a suo tempo già oggetto di una pronuncia della Corte Costituzionale (sent. 116/2011).
In caso di ricovero nel neonato in Struttura pubblica o privata, la madre ha diritto di chiedere la sospensione del congedo di maternità (durante i 3-4 mesi dopo il parto, ovvero durante i giorni non goduti prima del parto, in caso di parto prematuro), e di godere del congedo, in tutto o in parte, dalla data di dimissione del bambino.
Il diritto può essere esercitato una sola volta per ogni figlio ed è subordinato alla produzione di attestazione medica che dichiari la compatibilità dello stato di salute della donna con la ripresa dell’attività lavorativa.

ATTENZIONE: Il divieto ex. art. 16 D.lgs. 151/2001 (astensione dal lavoro) è indisponibile, non può in nessun caso essere oggetto di rinuncia da parte della Lavoratrice neppure in presenza di attestazione del medico curante circa l’assenza di contro-indicazioni alla ripresa dell’attività lavorativa (Min. Lav. Interpello nr. 51/2009). Per questo motivo, le ferie e le assenze eventualmente spettanti alla Lavoratrice ad altro titolo (es. ROL, Ex-Festività) non possono essere godute contemporaneamente ai periodi di astensione obbligatoria (art. 22.6°comma D.lgs. 151/2001; C. Giust. CE 18/3/2004 C-342/01).

martedì 17 novembre 2015

LA DISCIPLINA DELLA PROROGA NELLA SOMMINISTRAZIONE A TEMPO DETERMINATO

Quesito:
Nel contratto di somministrazione a tempo determinato, la proroga è regolata secondo le norme del contratto a termine, ovvero da norme particolari?

Risposta:
L’art. 34.2°comma D.lgs. 81/2015, per la proroga dei contratti di somministrazione a tempo determinato, dispone quanto segue:

In caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III per quanto compatibile, con esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 19, commi 1, 2 e 3, 21, 23 e 24. Il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può in ogni caso essere prorogato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore.

Come si evince dall’articolo, la disciplina della proroga contenuta nell’art. 21 non è applicabile per le somministrazioni a tempo determinato.
Lo stesso articolo, però, introduce una disciplina ad hoc per la proroga (che ricalca in gran parte quella prevista in generale per i rapporti a termini): si prescrive il consenso del lavoratore, la forma scritta (e questa, come visto, è una particolarità, non prevista per il lavoro a termine) e “i casi” e “la durata” delle proroghe sono rimesse ai contratti collettivi. Con riguardo all’ultimo contratto collettivo applicabile alle Agenzie di Somministrazione, le proroghe sono possibili fino ad un massimo di 6 volte nell’arco di 36 mesi, come da normativa che si riporta di seguito in estratto

ESTRATTO CCNL AGENZIE SOMMINISTRAZIONE
(ART. 47):
1.La materia delle proroghe è di esclusiva competenza del presente Contratto Collettivo. Con riferimento al dettato previsto all'art. 22, comma 2, secondo periodo, del D.Lgs. 276/03, il periodo di assegnazione iniziale può essere prorogato per 6 volte nell'arco di 36 mesi. Il periodo temporale dei 36 mesi si intende comprensivo del periodo iniziale di missione, fermo restando che l'intero periodo si configura come un'unica missione.
2. Il periodo iniziale può essere prorogato con il consenso del lavoratore e, ai soli fini probatori, deve essere formalizzato con atto scritto. Le proroghe sono da intendersi continuative, senza alcuna soluzione di continuità del rapporto di lavoro.
3. Resta inteso che, nei casi di somministrazione per la sostituzione di lavoratori assenti, il periodo iniziale della missione può essere prorogato fino alla permanenza delle ragioni che hanno causato le assenze.
4. L'informazione al lavoratore della durata temporale della proroga va fornita, salvo motivi d'urgenza, con un anticipo di 5 giorni rispetto alla scadenza inizialmente prevista o successivamente prorogata, e comunque mai inferiore a 2 giorni.

TEMPO DETERMINATO, QUALE PROROGA PER I DIRIGENTI?

Quesito:
La disciplina della proroga (art. 21.1°comma D.Lgs. 81/2015) si applica ai Dirigenti?

Risposta:
In linea con un orientamento normativo consolidatosi fin dal vigore della l. 230/62, siamo a ritenere che dalla disciplina della proroga ex. art. 21.1°comma siano certamente esclusi i Dirigenti, per effetto del disposto di cui all’art. 29.2°comma lett. a) D.lgs. 81/2015.
In forza di tale esclusione, non si applicano le limitazioni dettate in generale per la proroga dall’art. 21.1°comma D.lgs. 81/2015: pertanto, il limite di non più di 5 proroghe non vale per i Dirigenti.
Un piccolo “giallo”: nella trasmigrazione delle disposizioni dal D.lgs. 368/01 al D.lgs. 81/2015, per i Dirigenti non si mantiene l’estensione ad essi delle discipline su “non discriminazione” e “computo per garanzie sindacali”. Si ritiene che l’esclusione riguardi i dirigenti quantomeno per le disposizioni ex. 27 D.lgs. 81 (criteri di computo).
A disposizione per aggiornamenti

venerdì 13 novembre 2015

IL LAVORO A TEMPO DETERMINATO NEL CCNL STUDI PROF. LA SPECIALE DISCIPLINA DEI 36 MESI E LA PROROGA

Un brevissimo flash per precisarVi che, nel settore CCNL Studi Professionali (art. 53.3°comma CCNL), la regola dei 36 mesi sui contratti a termine opera in modo peculiare, rispetto al disegno tracciato, in via generale, dall’art. 19.1°-2° comma D.lgs. 81/2015.
Sotto, il testo del CCNL di interesse:

La durata massima del rapporto di lavoro concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell'ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato, è fissata in 36 mesi, comprensiva di eventuali proroghe.

Da focalizzare l’inciso “per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione”: ciò significa che, per il settore Studi Prof., non vale la regola fissata dall’art. 19.2°comma D.lgs. 81, che ammette, nel conteggio del limite dei 36 mesi, solo contratti per “mansioni dello stesso livello o Categorie legali”, ma anche mansioni non equivalenti come livello e di differente Categoria Legale.
Questa deroga non pare poter essere abrogata dall'art.19.2°comma D.lgs. 81/2015. Pur essendo la disciplina del CCNL anteriore al "Codice dei contratti", essa deve ritenersi vigente perché l'art.19.2 comma dichiara "salve" tutte le diverse discipline collettive. Nel silenzio della norma, è legittimo ritenere che tali siano non solo le discipline che verranno, ma anche quelle esistenti. In questo senso, questa clausola (di pretto "diritto speciale") pare salvaguardare l'efficacia dell'art.53 CCNL in parte qua, impedendo che esso sia colpito dai meccanismi di abrogazione - successione delle leggi nel tempo (art. 15 preleggi).
CASO PRATICO: Nel caso di una Dipendente a termine assunta per 12 mesi come donna delle pulizie, e poi assunta per 24 come Segretaria, si cumuleranno tutti i periodi di servizio, a prescindere dalla radicale difformità di inquadramento e di mansioni.

PROROGA, DISCIPLINA CRITICA:
Quanto alla proroga, oggetto di disciplina nel comma 4 dell’art. 53 cit., il CCNL si attesta su un’interpretazione molto restrittiva rispetto al nuovo quadro tracciato dall’art. 22 D.lgs. 81/2015.
Nell’economia della riforma del tempo determinato, il rapporto è prorogabile senza più vincolo di mansioni. Tutto il contrario di quanto disposto dall’art. 53.4°comma CCNL Studi Prof. che dispone:

In relazione alle mansioni per la quale il contratto è stato inizialmente stipulato, sono ammissibili complessivamente un massimo di 5 proroghe.

L’impressione più coerente è che questa disciplina di CCNL debba intendersi superata dal nuovo art. 22: almeno, invocando l’analogia con la regole di diritto intertemporale ricostruite per il D.lgs. 81/2015, dalla sentenza del Tribunale di Roma del 25/9/2015 (sia pure per il diverso caso dell’art. 3): la nuova legge (D.lgs. 81/2015) abroga la precedente e, con essa, ogni disciplina collettiva connessa.
Ricordiamo che, per questa previsione, non esiste una previsione analoga a quella dell'art.19.2 comma. Dlgs 81, che faccia salve discipline, anche preesistenti, difformi. Pertanto, a questo articolo paiono applicarsi le regole generali ex. Art. 15 preleggi, e deve intendersi sostanzialmente superato dalle nuove disposizioni di legge.
Restiamo a disposizione per approfondimenti, auspicando eventuali conferme ministeriali.

giovedì 12 novembre 2015

QUANTO DURA L'ESONERO INPS EX. ART.1.118 COMMA L. 190/2014

L’esonero contributivo INPS ex. art. 1.118°comma l. 190/2014 riguarda le assunzioni a tempo indeterminato realizzate tra il 1/1/2015 e il 31/12/2015.
Per le assunzioni che avvengano oltre questa cornice, lo sgravio si applica solo in quanto sarà prorogato dalla prossima legge di stabilità (la legge di stabilità, infatti, prevede proroghe, con modifiche).
Una volta applicato, lo sgravio ha durata triennale. Questo punto è stato precisato dall’INPS in via definitiva.
Ecco lo stralcio del testo di interesse.

ESTRATTO CIRCOLARE INPS 178/2015:
3.3. Durata dello sgravio.
Il beneficio riguarda, come è noto, le nuove assunzioni con decorrenza dal 1° gennaio 2015 al 31 dicembre 2015. La sua durata è pari a trentasei mesi a partire dalla data di assunzione.
In caso di assunzione a tempo indeterminato a scopo di somministrazione, lo sgravio spetta sia per la somministrazione a tempo indeterminato che per la somministrazione a tempo determinato, per la durata complessiva di 36 mesi, compresi gli eventuali periodi in cui il lavoratore rimane in attesa di assegnazione.
Il periodo di godimento dell’agevolazione può essere sospeso nei casi di assenza obbligatoria dal lavoro per maternità (cfr. circolare n. 84/1999), consentendo il differimento temporale del periodo di fruizione dei benefici.

A disposizione per approfondimenti

SGRAVIO INPS EX.ART.1.118 COMMA L. 199/2014: LE ALIQUOTE PREVIDENZIALI NON SOGGETTE AD ESONERO

La Circolare INPS 178/2015 riepiloga quelle che sono le voci contributive non interessate dall’esonero contributivo ex. art. 1.118°comma l. 190/14.
L’esonero contributivo introdotto dalla legge di stabilità 2015 è pari ai contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, con eccezione delle seguenti forme di contribuzione:
-I premi e i contributi dovuti all’INAIL, per effetto della esclusione operata dallo stesso comma 118, articolo 1, della legge n. 190/2014;
-Il contributo, ove dovuto, al “fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’art. 2120 del c.c.” di cui al comma 755, articolo 1, della legge n. 296/2006, per effetto dell’esclusione dall’applicazione degli sgravi contributivi operata dal comma 765, ultimo periodo, della medesima norma;
-Il contributo, ove dovuto, ai fondi di cui all’art. 3, commi 4,[2] 14 e 19, della legge n. 92/2012, per effetto dell’esclusione dall’applicazione degli sgravi contributivi prevista dall’art. 3, comma 25, della medesima legge.

L’INPS, inoltre, spiega che: “ai fini dell’individuazione delle forme di contribuzione obbligatoria soggette all’esonero contributivo di cui si tratta, in assenza di specifiche previsioni di legge, vanno escluse dall’applicazione dell’esonero le contribuzioni che non hanno natura previdenziale e quelle concepite allo scopo di apportare elementi di solidarietà alle gestioni previdenziali di riferimento”.
In questa prospettiva, non sono soggette all’esonero contributivo triennale le seguenti forme di contribuzione, ancorché di natura obbligatoria:
-Il contributo per la garanzia sul finanziamento della Qu.I.R., di cui all’art. 1, comma 29, della legge n. 190/2014;
-Il contributo previsto dall’articolo 25, comma 4, della legge 21 dicembre 1978, n. 845, in misura pari allo 0,30% della retribuzione imponibile, destinato, in relazione ai datori di lavoro che vi aderiscono, al finanziamento dei fondi interprofessionali per la formazione continua istituiti dall’art. 118 della legge n. 388/2000;
-Il contributo di solidarietà sui versamenti destinati alla previdenza complementare e/o ai fondi di assistenza sanitaria di cui alla legge n. 166/1991;
-il contributo di solidarietà per i lavoratori dello spettacolo, di cui all’art. 1, commi 8 e 14, del d.lgs. n. 182/1997;
-il contributo di solidarietà per gli sportivi professionisti, di cui all’art. 1, commi 3 e 4 del d.lgs. n. 166/1997.

ART. 3.15°COMMA LEGGE 297/82: ALIQUOTA 0.50% DESTINATA AL FINANZIAMENTO IVS: COSA SUCCEDE SE IVS E’ COPERTA DA SGRAVIO EX. ART. 1.118°COMMA:
Al riguardo, si riporta integralmente il passaggio dedicato della Circolare INPS:

Si precisa, inoltre, che, trattandosi di una contribuzione previdenziale a carico del datore di lavoro, il contributo aggiuntivo IVS, previsto dall’articolo 3, comma 15, della legge 297/1982 destinato al finanziamento dell’incremento delle aliquote contributive del Fondo pensioni dei lavoratori dipendenti in misura pari a 0,50% della retribuzione imponibile, è soggetto all’applicazione dell’esonero contributivo triennale. Al riguardo, si fa presente che il successivo comma 16 della sopra citata disposizione di legge prevede contestualmente l’abbattimento della quota annua del trattamento di fine rapporto in misura pari al predetto incremento contributivo. Pertanto, una volta applicato l’esonero dal versamento del predetto contributo aggiuntivo IVS il datore di lavoro non dovrà evidentemente operare l’abbattimento della quota annua del trattamento di fine rapporto del lavoratore ovvero dovrà effettuare detto abbattimento in misura pari alla quota del predetto contributo esclusa, per effetto dell’applicazione del massimale annuo di 8.060 euro, dalla fruizione dell’esonero contributivo”.

SGRAVIO INPS EX. ART. 1.118°COMMA L. 190 E MISURE COMPENSATIVE EX. ART. 10.2°-3°COMMA D.LGS. 252/2005:
Sul punto, l’INPS precisa:
Poiché, infine, l’esonero contributivo introdotto dalla legge di stabilità 2015 opera sulla contribuzione effettivamente dovuta, in caso di applicazione delle misure compensative di cui all’art. 10, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 252/2005 – destinazione del trattamento di fine rapporto ai fondi pensione, al fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’art. 2120 del c.c., nonché erogazione in busta paga della Qu.I.R. - l’esonero è calcolato sulla contribuzione previdenziale dovuta, al netto delle riduzioni che scaturiscono dall’applicazione delle predette misure compensative”.
A disposizione per approfondimenti