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venerdì 22 novembre 2013

ACCORDO DI PREPENSIONAMENTO: LA PRESTAZIONE INPS A FAVORE DEL LAVORATORE, UN NUOVO RISCHIO "ESODATI"?- 2a PARTE

AVVERTENZA: Prosegue il commento dell'art. 04.01-07ter comma l. 92/2012 relativa al cd accordo per il prepensionamento. La prima parte dell'analisi era stata pubblicata al link http://costidellavoro.blogspot.it/2013/10/accordi-prepensionamento-art-0401comma.html



            La principale fonte di complessità della normativa discende dalla combinazione di istituti privatistici e pubblicistici in una congerie complessa.
            Innanzitutto, l’articolato mette in campo una congerie negoziale alquanto complessa.
Dal comma qui in esame, ci si accorge ancora più agevolmente che l’accordo di prepensionamento ex. art. 04.01-07ter comma l. 92/2012 si compone di due atti, ovvero due negozi giuridici correlati:

a)      Il negozio giuridico espulsivo (licenziamento o risoluzione consensuale);
b)      L’ “impegno” del Datore a corrispondere una “prestazione di importo pari al trattamento di pensione, che spetterebbe in base alle regole vigenti” (assimilabile latu sensu ad una “promessa del fatto di terzo”, dove il “terzo”, qui, non è un privato, ma un Ente Previdenziale!

Un negozio giuridico certamente composito, che non è semplice catalogare nelle classiche partizioni del “negozio composto” o del “negozio complesso” tanto care ai civilisti.
Ancora meno chiara è la combinazione di questi istituti con la definizione/liquidazione della prestazione: essa, scorrendo l’art. 04.02°comma, resta da definirsi secondo i consueti parametri “pubblicistici” proprie della prestazioni previdenziali.
Ma andiamo con ordine.

Compariamo l’inciso del comma 01 con il comma 02 dell’art. 04 l. 92/2012:

Comma 01:
Il Datore di Lavoro si impegn[a] a corrispondere ai lavoratori una prestazione di importo pari al trattamento di pensione che spetterebbe in base alle regole vigenti e a corrispondere all’INPS la contribuzione figurativa fino al raggiungimento dei requisiti minimi per il pensionamento”.

Comma 02:
I Lavoratori coinvolti nel programma di cui al comma 01 debbono raggiungere i requisiti minimi per il pensionamento, di vecchiaia o anticipata, nei quattro anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro”.

La “validazione” della “prestazione” da parte dell’INPS, poi, determina un ulteriore obbligo in capo al Datore, come emerge dal comma 05:

A seguito dell’accettazione dell’accordo di cui al comma 01, il Datore di Lavoro è obbligato a versare mensilmente all’INPS la provvista per la prestazione e per la contribuzione figurativa. In ogni caso, in assenza del versamento mensile di cui al presente comma, l’INPS è tenuto a non erogare le prestazioni”.

Il riferimento all’ “accettazione” non deve trarre in inganno.
Il diritto del Lavoratore alla percezione della prestazione non sorge dall’accordo, ma dalla “validazione” (comma 03) dello stesso da parte dell’INPS, che ne accerta la sussistenza sotto i profili contributivi ex. comma 02.
Non si creda che la prestazione nasca dall’accordo, perché la prestazione resta di carattere previdenziale e pubblicistico, come si capisce dal comma 06, in cui si precisa che, in caso di mancati pagamenti, la prestazione è equiparata, quanto a riscossione, alle altre procedure pensionistiche.
Che siamo a tutta evidenza in presenza di un rapporto previdenziale-pubblicistico, lo dimostrano le prime Circolari e i successivi messaggi INPS, secondo i quali la “validazione” dell’accordo ex. comma 04 determina in capo al Lavoratore il diritto a percepire da parte dell’INPS una prestazione di importo pari al trattamento di pensione che spetterebbe in base alle regole vigenti, in ragione dell’anzianità contributiva e delle retribuzioni percepite fino a quel momento. Debitore della prestazione è quindi l’Ente Pubblico (INPS).
Correlata a questa posizione dell’INPS, scaturiscono tre rilevanti oneri tipicamente “contributivi” del Datore di Lavoro:

a)      Fornire la “provvista” della prestazione;
b)      Versare la “contribuzione figurativa” a favore del Lavoratore, fino al raggiungimento degli obiettivi pensionistici.
c)      Emissione di fideiussione bancaria.

Certo, la prestazione di cui parla il comma 01 è una prestazione diversa e distinta dalla prestazione pensionistica in senso stretto.
Circa la natura della prestazione economica che il Lavoratore percepisce, l’INPS, con Messaggio nr. 14984/2013 ha chiarito trattarsi di “prestazione a sostegno del reddito”.
Questa qualificazione determina, nelle valutazioni INPS, una serie di effetti a catena sul regime di “reversibilità” e sul trattamento per gli Assegni Familiari.
In punto di “reversibilità”, l’INPS ha avuto modo di precisare che, al momento del recesso del beneficiario ai superstiti non spetterà il relativo trattamento di reversibilità, ma una pensione indiretta, il cui importo è determinato sia dagli elementi contributivi e retributivi rilevanti al momento della cessazione del rapporto di lavoro, sia dalla contribuzione figurativa correlata, accreditata fino al momento del decesso.
Sull’importo della stessa, non spetta la perequazione automatica, né spettano gli assegni familiari, così come non possono essere effettuate ritenute per il pagamento di oneri per riscatti e ricongiunzioni, che devono quindi essere interamente versati prima dell’accesso alla prestazione.
C’è, però, in tutto questo, un rilevante problema.
La fattispecie è stata concepita per evitare che in futuro potessero ripetersi gli odiosi eventi come quello degli “esodati”. Davvero questa soluzione legislativa evita il problema?
C’è più di un motivo per dubitare, complice proprio le rilevanti carenze tecniche della disposizione in esame.
Innanzitutto, l’art. 04.01 ss l. 92/2012 non contiene alcuna clausola di salvaguardia che escluda l’applicazione di eventuali sopravvenuti nuovi requisiti di accesso agli accordi precedentemente intervenuti nei primi 04 anni. Una disposizione quanto mai necessaria, dato che questi aspetti attengono alla struttura “pubblicistica” della norma previdenziale, che opera autonomamente e al di sopra degli accordi. Né gli accordi in se possono compendiare una “prenotazione” di questi requisiti pubblicistici, per strutturale insufficienza tecnica (altra cosa è la valenza simbolico-politico-sindacale degli accordi!).
La riprova di quanto andiamo dicendo, la troviamo, tra l’altro, nel punto 05 della Circolare INPS 119/2013. Tale punto chiarisce che il diritto e la misura della pensione definitiva saranno determinati in base alla normativa in vigore alla data di decorrenza della medesima.
Senonchè si sarebbe costretti a compendiare le eventuali restrizioni nell’accesso pensionistico a ius superveniens!
La problematica degli esodati si riproporrebbe?
La riflessione va articolata e approfondita e, sotto questo profilo, “casca” particolarmente bene l’esegesi del comma 02 dell’articolo 04 cit. il quale dispone:

I Lavoratori coinvolti nel programma di cui al comma 01 debbono raggiungere i requisiti minimi per il pensionamento, di vecchiaia o anticipata, nei quattro anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro”.
           
            Per la valutazione in dettaglio dei requisiti e del coordinamento con le recenti disposizioni dell’art. 24 DL 214/2011 si veda Circolare Fondazione Studi Consulenti del Lavoro numero 12/2013, sezione “ambito di applicazione e oggetto” al link: http://www.consulentidellavoro.it/pdf/fondazionestudi/circolare_12_2013.pdf.
            In sintesi, la legge dispone che, al momento dell’accordo, deve essere possibile pianificare il raggiungimento dei requisiti “minimi” (anagrafici e anzianità contributiva) per il pensionamento. Tutto questo, evidentemente a normativa pro tempore vigente (come del resto conferma lo stesso comma 01, quando riferisce il trattamento del Lavoratore a “regole vigenti”). Da questo punto di vista, se i conteggi sono corretti, non dovrebbero esserci sorprese almeno sotto il profilo della “prestazione” ex. art. 04.01°comma che resta spettante, anche se frattanto mutano i requisiti di accesso alla pensione, in senso più sfavorevole!
            Resta da capire (punto sul quale si interroga anche la Circolare 12/2013) della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, che ne sarebbe della prestazione nel caso in cui il Lavoratore trovi un’altra occupazione?
Qui, le difficoltà (e talora) lo sbandamento di INPS e Ministero del Lavoro si mostrano con evidenza! In merito al suddetto caso, infatti, l’INPS conclude che, non avendo il legislatore previsto l’adeguamento della prestazione alla sopravvenuta retribuzione, il trattamento “pieno” continua a spettare. Un’affermazione che prova … tutto e niente! Perché o il trattamento de quo si qualifica come “pensione” (anticipata) e allora esso deve essere inteso come tale a tutti gli effetti come reversibilità, assegni familiari etc. (ma allora non si capisce perché la Circolare abbia escluso questa possibilità); ovvero il trattamento si qualifica (come del resto indicato nella Circolare) come “prestazione a sostegno del reddito”; ma allora, ci si aspetterebbe che la stessa, assimilabile, in questo a CIG, si presti ad essere adeguata alla retribuzione frattanto percepita. La circostanza che la legge nulla disponga non dovrebbe costituire fatto impeditivo, anzi dovrebbe valere come conferma di questo che è un autentico “principio generale”.
Il fatto è che, se la legge non è tecnicamente in grado di incidere sui requisiti di accesso al pensionamento, difettando una speciale disposizione di “congelamento” della carriera previdenziale del Lavoratore (che l’accordo in sé non può conseguire, attesa la valenza pubblicistica di questi aspetti), simili prese di posizione dell’INPS sono perfettamente inutili e anzi determinano trattamenti di eccessivo favore, rispetto agli altri percettori di prestazioni a sostegno del reddito (al limite, potrebbero darsi accordi simulati per speculare sui doppi emolumenti: retributivo e previdenziale!).
            Nell’ipotesi (non poi così estrema) in cui il Lavoratore dovesse trovare un’altra occupazione perfettamente sovrapponibile alla prestazione, a rigore, dovrebbe scaturire la totale cancellazione del trattamento (per evidente e sopraggiunto “difetto di causa” ex. art. 1342 Codice Civile) e la nuova decorrenza della carriera previdenziale del Lavoratore, soggiacendo egli ad eventuali restrizioni sopraggiunte.
            La mia personale impressione è che in questo punto sia avvenuto un corto circuito tra la “percezione politico-sociale” della materia e la sua dimensione “tecnico-normativa”.
            Nessun dubbio che l’INPS, aderendo alla impostazione apparentemente più lassista e generosa, e allo scopo di evitare “scoperture” nella carriera contributivo-pensionistica dei Dipendenti, abbia inteso realizzare una politica di massimo favore verso la rioccupazione dei lavoratori. Mettendo in conto che, anche “sotto trattamento”, i Dipendenti possono lavorare “in nero”, l’INPS ha forse creduto di aderire all’impostazione che creasse meno remore all’emersione dei redditi e dei contributi di lavoratori, che, come tali, restano a rischio “esodati” (se non altro per il rischio di essere “scoperti” nell’anello finale della procedura). Ma se questi obiettivi in sé sono apprezzabili e commendevoli nelle intenzioni, essi rientrano nella sfera di auto-responsabilità del Lavoratore, e allora la tutela INPS in parte qua è manifestamente sovrabbondante.
            Delle due l’una: o l’accordo è una misura di sostegno al reddito di soggetti, praticamente in occupabili; ma allora, non si capisce perché il trattamento dovrebbe spettare, anche se il soggetto lavora, dato che, con la rioccupazione, viene meno, magari pro parte, la ragione di sostegno al reddito. O l’accordo è un atto che prefigura un prepensionamento: e allora è coerente, dato il consolidarsi in capo al soggetto pensionato di una rendita ridotta, non è iniquo concepire un cumulo reddituale (a maggior ragione in un sistema “contributivo” dall’applicazione ormai generalizzata!).
            Ma la legge sullo specifico punto non è chiara, probabilmente a causa di compromessi politici che l’hanno contrassegnata in sede parlamentare e che hanno impedito lo scioglimento in quella sede dei nodi socialmente più spinosi.
            Né del resto aiuta la complicata e contorta veste tecnica adottata dal legislatore. Le conclamate carenze tecniche qui evidenziate sono, a mio modesto giudizio, il portato del farraginoso e complesso sistema creato dal legislatore, il quale ha confezionato una fattispecie, a metà tra le “procedure consensuali-negoziali” e le “procedure previdenziali-pubblicistiche”, restando fatalmente impigliato nell’intricata e poco decifrabile costruzione da esso fabbricata.
           

E’ proprio questa non chiara combinazione a porre problemi di tutela del Lavoratore, come evidenziato nel commento del comma 01. Deve, cioè, essere chiarito se la mancanza dell’anello finale della catena negoziale (la non spettanza della prestazione, deliberata/accertata dall’INPS) determini la caduta dell’intera serie di atti giuridici, ovvero la parziale salvaguardia dei negozi giuridici già perfezionati.
In quest’ultimo senso, si sono mosse le prime Circolari, quelle del Ministero del Lavoro e dell’INPS, che hanno ritenuto l’accordo di “licenziamento”, inefficace quanto a “prestazione” (per errori nel conteggio), possa rivivere come “licenziamento collettivo” o “per giustificato motivo oggettivo”, ricorrendone i presupposti di legge. Più problematico invece il caso che l’accordo sia stato disposto sulla base di conteggi erronei della posizione pensionistica dell’interessato e l’interessato abbia stipulato con l’Azienda una risoluzione consensuale, “accettata” in sede sindacale. Ragioni di equità dovrebbero consigliare di ritenere la risoluzione tamquam non esset per errore di calcolo e difetto di “presupposizione”, ma il punto dovrà essere chiarito in sede ministeriale, per l’evidente (e perniciosa) interferenza che sulla fattispecie esercita l’art. 04.17°comma ss. l. 92/2012 (che determina la convalida automatica delle risoluzioni consensuali decise in sede sindacale.
            Comunque, questo basti per ricordare la complessità latente, non ancora risolta nei primi pronunciamenti interpretativi.
           

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