AVVERTENZA: Prosegue il commento dell'art. 04.01-07ter comma l. 92/2012 relativa al cd accordo per il prepensionamento. La prima parte dell'analisi era stata pubblicata al link: http://costidellavoro.blogspot.it/2013/10/accordi-prepensionamento-art-0401comma.html
La
principale fonte di complessità della normativa discende dalla combinazione di
istituti privatistici e pubblicistici in una congerie complessa.
Innanzitutto,
l’articolato mette in campo una congerie negoziale alquanto complessa.
Dal comma qui
in esame, ci si accorge ancora più agevolmente che l’accordo di
prepensionamento ex. art. 04.01-07ter comma l. 92/2012 si compone di due atti,
ovvero due negozi giuridici correlati:
a) Il
negozio giuridico espulsivo (licenziamento o risoluzione consensuale);
b) L’
“impegno” del Datore a corrispondere una “prestazione di importo pari al
trattamento di pensione, che spetterebbe in base alle regole vigenti”
(assimilabile latu sensu ad una “promessa del fatto di terzo”, dove il “terzo”,
qui, non è un privato, ma un Ente Previdenziale!
Un negozio
giuridico certamente composito, che non è semplice catalogare nelle classiche
partizioni del “negozio composto” o del “negozio complesso” tanto care ai
civilisti.
Ancora meno
chiara è la combinazione di questi istituti con la definizione/liquidazione
della prestazione: essa, scorrendo l’art. 04.02°comma, resta da definirsi
secondo i consueti parametri “pubblicistici” proprie della prestazioni
previdenziali.
Ma andiamo
con ordine.
Compariamo
l’inciso del comma 01 con il comma 02 dell’art. 04 l. 92/2012:
Comma 01:
“Il Datore di Lavoro si impegn[a] a
corrispondere ai lavoratori una prestazione di importo pari al trattamento di
pensione che spetterebbe in base alle regole vigenti e a corrispondere all’INPS
la contribuzione figurativa fino al raggiungimento dei requisiti minimi per il
pensionamento”.
Comma 02:
“I Lavoratori coinvolti nel programma di cui
al comma 01 debbono raggiungere i requisiti minimi per il pensionamento, di
vecchiaia o anticipata, nei quattro anni successivi alla cessazione del
rapporto di lavoro”.
La
“validazione” della “prestazione” da parte dell’INPS, poi, determina un
ulteriore obbligo in capo al Datore, come emerge dal comma 05:
“A seguito dell’accettazione dell’accordo di
cui al comma 01, il Datore di Lavoro è obbligato a versare mensilmente all’INPS
la provvista per la prestazione e per la contribuzione figurativa. In ogni
caso, in assenza del versamento mensile di cui al presente comma, l’INPS è
tenuto a non erogare le prestazioni”.
Il
riferimento all’ “accettazione” non deve trarre in inganno.
Il diritto
del Lavoratore alla percezione della prestazione non sorge dall’accordo, ma
dalla “validazione” (comma 03) dello stesso da parte dell’INPS, che ne accerta
la sussistenza sotto i profili contributivi ex. comma 02.
Non si creda
che la prestazione nasca dall’accordo, perché la prestazione resta di carattere
previdenziale e pubblicistico, come si capisce dal comma 06, in cui si precisa
che, in caso di mancati pagamenti, la prestazione è equiparata, quanto a riscossione,
alle altre procedure pensionistiche.
Che siamo a
tutta evidenza in presenza di un rapporto previdenziale-pubblicistico, lo
dimostrano le prime Circolari e i successivi messaggi INPS, secondo i quali la
“validazione” dell’accordo ex. comma 04 determina in capo al Lavoratore il
diritto a percepire da parte dell’INPS una prestazione di importo pari al
trattamento di pensione che spetterebbe in base alle regole vigenti, in ragione
dell’anzianità contributiva e delle retribuzioni percepite fino a quel momento.
Debitore della prestazione è quindi l’Ente Pubblico (INPS).
Correlata a
questa posizione dell’INPS, scaturiscono tre rilevanti oneri tipicamente
“contributivi” del Datore di Lavoro:
a) Fornire
la “provvista” della prestazione;
b) Versare
la “contribuzione figurativa” a favore del Lavoratore, fino al raggiungimento
degli obiettivi pensionistici.
c) Emissione
di fideiussione bancaria.
Certo, la
prestazione di cui parla il comma 01 è una prestazione diversa e distinta dalla
prestazione pensionistica in senso stretto.
Circa la
natura della prestazione economica che il Lavoratore percepisce, l’INPS, con
Messaggio nr. 14984/2013 ha chiarito trattarsi di “prestazione a sostegno del
reddito”.
Questa
qualificazione determina, nelle valutazioni INPS, una serie di effetti a catena
sul regime di “reversibilità” e sul trattamento per gli Assegni Familiari.
In punto di
“reversibilità”, l’INPS ha avuto modo di precisare che, al momento del recesso
del beneficiario ai superstiti non spetterà il relativo trattamento di reversibilità,
ma una pensione indiretta, il cui importo è determinato sia dagli elementi
contributivi e retributivi rilevanti al momento della cessazione del rapporto
di lavoro, sia dalla contribuzione figurativa correlata, accreditata fino al
momento del decesso.
Sull’importo
della stessa, non spetta la perequazione automatica, né spettano gli assegni
familiari, così come non possono essere effettuate ritenute per il pagamento di
oneri per riscatti e ricongiunzioni, che devono quindi essere interamente versati
prima dell’accesso alla prestazione.
C’è, però, in
tutto questo, un rilevante problema.
La
fattispecie è stata concepita per evitare che in futuro potessero ripetersi gli
odiosi eventi come quello degli “esodati”. Davvero questa soluzione legislativa
evita il problema?
C’è più di un
motivo per dubitare, complice proprio le rilevanti carenze tecniche della
disposizione in esame.
Innanzitutto,
l’art. 04.01 ss l. 92/2012 non contiene alcuna clausola di salvaguardia che
escluda l’applicazione di eventuali sopravvenuti nuovi requisiti di accesso
agli accordi precedentemente intervenuti nei primi 04 anni. Una disposizione
quanto mai necessaria, dato che questi aspetti attengono alla struttura
“pubblicistica” della norma previdenziale, che opera autonomamente e al di
sopra degli accordi. Né gli accordi in se possono compendiare una
“prenotazione” di questi requisiti pubblicistici, per strutturale insufficienza
tecnica (altra cosa è la valenza simbolico-politico-sindacale degli accordi!).
La riprova di
quanto andiamo dicendo, la troviamo, tra l’altro, nel punto 05 della Circolare
INPS 119/2013. Tale punto chiarisce che il diritto e la misura della pensione
definitiva saranno determinati in base alla normativa in vigore alla data di
decorrenza della medesima.
Senonchè si
sarebbe costretti a compendiare le eventuali restrizioni nell’accesso
pensionistico a ius superveniens!
La
problematica degli esodati si riproporrebbe?
La riflessione
va articolata e approfondita e, sotto questo profilo, “casca” particolarmente
bene l’esegesi del comma 02 dell’articolo 04 cit. il quale dispone:
“I Lavoratori coinvolti nel programma di cui
al comma 01 debbono raggiungere i requisiti minimi per il pensionamento, di
vecchiaia o anticipata, nei quattro anni successivi alla cessazione del
rapporto di lavoro”.
In
sintesi, la legge dispone che, al momento dell’accordo, deve essere possibile
pianificare il raggiungimento dei requisiti “minimi” (anagrafici e anzianità
contributiva) per il pensionamento. Tutto questo, evidentemente a normativa pro tempore vigente (come del resto
conferma lo stesso comma 01, quando riferisce il trattamento del Lavoratore a
“regole vigenti”). Da questo punto di vista, se i conteggi sono corretti, non
dovrebbero esserci sorprese almeno sotto il profilo della “prestazione” ex.
art. 04.01°comma che resta spettante, anche se frattanto mutano i requisiti di
accesso alla pensione, in senso più sfavorevole!
Resta
da capire (punto sul quale si interroga anche la Circolare 12/2013) della
Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, che ne sarebbe della prestazione nel
caso in cui il Lavoratore trovi un’altra occupazione?
Qui, le
difficoltà (e talora) lo sbandamento di INPS e Ministero del Lavoro si mostrano
con evidenza! In merito al suddetto caso, infatti, l’INPS conclude che, non
avendo il legislatore previsto l’adeguamento della prestazione alla
sopravvenuta retribuzione, il trattamento “pieno” continua a spettare. Un’affermazione
che prova … tutto e niente! Perché o il trattamento de quo si qualifica come “pensione” (anticipata) e allora esso deve
essere inteso come tale a tutti gli effetti come reversibilità, assegni
familiari etc. (ma allora non si capisce perché la Circolare abbia escluso
questa possibilità); ovvero il trattamento si qualifica (come del resto
indicato nella Circolare) come “prestazione a sostegno del reddito”; ma allora,
ci si aspetterebbe che la stessa, assimilabile, in questo a CIG, si presti ad
essere adeguata alla retribuzione frattanto percepita. La circostanza che la
legge nulla disponga non dovrebbe costituire fatto impeditivo, anzi dovrebbe
valere come conferma di questo che è un autentico “principio generale”.
Il fatto è
che, se la legge non è tecnicamente in grado di incidere sui requisiti di
accesso al pensionamento, difettando una speciale disposizione di
“congelamento” della carriera previdenziale del Lavoratore (che l’accordo in sé
non può conseguire, attesa la valenza pubblicistica di questi aspetti), simili
prese di posizione dell’INPS sono perfettamente inutili e anzi determinano
trattamenti di eccessivo favore, rispetto agli altri percettori di prestazioni
a sostegno del reddito (al limite, potrebbero darsi accordi simulati per
speculare sui doppi emolumenti: retributivo e previdenziale!).
Nell’ipotesi
(non poi così estrema) in cui il Lavoratore dovesse trovare un’altra
occupazione perfettamente sovrapponibile alla prestazione, a rigore, dovrebbe
scaturire la totale cancellazione del trattamento (per evidente e sopraggiunto
“difetto di causa” ex. art. 1342 Codice
Civile) e la nuova decorrenza della carriera previdenziale del Lavoratore,
soggiacendo egli ad eventuali restrizioni sopraggiunte.
La
mia personale impressione è che in questo punto sia avvenuto un corto circuito
tra la “percezione politico-sociale” della materia e la sua dimensione
“tecnico-normativa”.
Nessun
dubbio che l’INPS, aderendo alla impostazione apparentemente più lassista e
generosa, e allo scopo di evitare “scoperture” nella carriera
contributivo-pensionistica dei Dipendenti, abbia inteso realizzare una politica
di massimo favore verso la rioccupazione dei lavoratori. Mettendo in conto che,
anche “sotto trattamento”, i Dipendenti possono lavorare “in nero”, l’INPS ha
forse creduto di aderire all’impostazione che creasse meno remore all’emersione
dei redditi e dei contributi di lavoratori, che, come tali, restano a rischio
“esodati” (se non altro per il rischio di essere “scoperti” nell’anello finale
della procedura). Ma se questi obiettivi in sé sono apprezzabili e commendevoli
nelle intenzioni, essi rientrano nella sfera di auto-responsabilità del
Lavoratore, e allora la tutela INPS in
parte qua è manifestamente sovrabbondante.
Delle
due l’una: o l’accordo è una misura di sostegno al reddito di soggetti,
praticamente in occupabili; ma allora, non si capisce perché il trattamento
dovrebbe spettare, anche se il soggetto lavora, dato che, con la rioccupazione,
viene meno, magari pro parte, la
ragione di sostegno al reddito. O l’accordo è un atto che prefigura un
prepensionamento: e allora è coerente, dato il consolidarsi in capo al soggetto
pensionato di una rendita ridotta, non è iniquo concepire un cumulo reddituale
(a maggior ragione in un sistema “contributivo” dall’applicazione ormai
generalizzata!).
Ma
la legge sullo specifico punto non è chiara, probabilmente a causa di
compromessi politici che l’hanno contrassegnata in sede parlamentare e che
hanno impedito lo scioglimento in quella sede dei nodi socialmente più spinosi.
Né
del resto aiuta la complicata e contorta veste tecnica adottata dal
legislatore. Le conclamate carenze tecniche qui evidenziate sono, a mio modesto
giudizio, il portato del farraginoso e complesso sistema creato dal
legislatore, il quale ha confezionato una fattispecie, a metà tra le “procedure
consensuali-negoziali” e le “procedure previdenziali-pubblicistiche”, restando
fatalmente impigliato nell’intricata e poco decifrabile costruzione da esso
fabbricata.
E’ proprio
questa non chiara combinazione a porre problemi di tutela del Lavoratore, come
evidenziato nel commento del comma 01. Deve, cioè, essere chiarito se la
mancanza dell’anello finale della catena negoziale (la non spettanza della
prestazione, deliberata/accertata dall’INPS) determini la caduta dell’intera
serie di atti giuridici, ovvero la parziale salvaguardia dei negozi giuridici
già perfezionati.
In
quest’ultimo senso, si sono mosse le prime Circolari, quelle del Ministero del
Lavoro e dell’INPS, che hanno ritenuto l’accordo di “licenziamento”, inefficace
quanto a “prestazione” (per errori nel conteggio), possa rivivere come
“licenziamento collettivo” o “per giustificato motivo oggettivo”, ricorrendone
i presupposti di legge. Più problematico invece il caso che l’accordo sia stato
disposto sulla base di conteggi erronei della posizione pensionistica
dell’interessato e l’interessato abbia stipulato con l’Azienda una risoluzione
consensuale, “accettata” in sede sindacale. Ragioni di equità dovrebbero
consigliare di ritenere la risoluzione tamquam
non esset per errore di calcolo e difetto di “presupposizione”, ma il punto
dovrà essere chiarito in sede ministeriale, per l’evidente (e perniciosa)
interferenza che sulla fattispecie esercita l’art. 04.17°comma ss. l. 92/2012
(che determina la convalida automatica delle risoluzioni consensuali decise in
sede sindacale.
Comunque,
questo basti per ricordare la complessità latente, non ancora risolta nei primi
pronunciamenti interpretativi.