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sabato 2 febbraio 2013

IL DIPENDENTE DELATORE

I recenti scandali finanziari hanno riportato stampa e media al dibattito della poca trasparenza e dell'opacità dei sistemi di controllo nelle Società. Problema, che aggiungiamo Noi, non riguarda soltanto il mondo della Finanza e delle Banche, ma anche il mondo delle Imprese, in generale, fortemente caratterizzato da fenomeni di estrazione di reddito, sotto-capitalizzazione etc. Un noto economista ha acutamente sollevato l'opportunità di introdurre incentivi per la delazione del Personale, che riscontri gravi irregolarità, in analogia con quanto succede negli USA:

"Se effettivamente tutti questi organi di vigilanza hanno fallito, non rimane che introdurre quel premio per i denunzianti civici che da anni vado proponendo. Se ci fosse stato un premio di svariati milioni a chi denunciava grosse irregolarità nel bilancio, pensate forse che nessun dipendente di [...] si sarebbe fatto avanti per rivelare il contratto segreto? Negli Stati Uniti questo meccanismo, introdotto per le frodi contro lo Stato, ha funzionato a meraviglia. Perché non introdurlo da noi?".
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-24/coraggio-cambiare-063643.shtml?uuid=AbHmVZNH

La provocazione è utile e va opportunamente raccolta dai giuslavoristi.
Come noto, un cardine essenziale del rapporto di lavoro subordinato è il cd "obbligo di fedeltà" del prestatore di lavoro ex. art. 2015 Codice Civile.
L’obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro ha come fonte principale la norma contenuta nell’art. 2105 c.c. che così recita: “ Il prestatore di lavoro non deve trattare affari per conto proprio o di terzi, in concorrenza  con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. Tale obbligo  di non concorrenza  (art.  2105 c.c.)  può  sussistere  anche dopo la cessazione  del rapporto di lavoro, anche se sia stato fra le parti concordato un patto di non concorrenza in base all’art. 2125 c.c. Infatti il divieto di divulgazione di notizie aziendali (art. 2105 c.c. seconda parte) sussiste anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, prescindendo da apposita pattuizione sol che si pensi che è penalmente sanzionata la sua violazione (art. 623 c.p.). L’obbligo di fedeltà è peculiare dei rapporti di natura personale come nel contratto di lavoro ed è particolarmente accentuato nei confronti dei dipendenti pubblici, i quali sonop tenuti non solo a prestare la propria opera con diligenza ma anche con lealtà.
L’obbligo di fedeltà vieta qualsiasi condotta in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura dell’impresa e che sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto.
La  Cassazione  ha  più volte confermato sentenze  di  merito  che  avevano ricondotto all’inosservanza del suddetto obbligo il comportamento del lavoratore consistente nell’accesso abusivo a dati riservati del datore di lavoro, custoditi in una directory protetta da password,  indipendentemente  dal  contenuto  dei  dati  raccolti  nella  suddetta  cartella,  sia  dalla sussistenza degli estremi della fattispecie di reato prevista e punita dall’art. 615-ter c.p. (Cass. 9 gennaio 2007 n. 153).
L’obbligo  di  fedeltà  a  carico  del  lavoratore  subordinato  va  collegato  ai  principi  generali  di correttezza  e  buona  fede  ex  art.  1175  e  1375  che  impongono  al  lavoratore  di  tenere  un comportamento leale nei confronti del proprio datore di lavoro, astenendosi da qualsiasi atto idoneo a nuocergli anche potenzialmente: pertanto, ai fini della violazione dell’obbligo di fedeltà incombente sul lavoratore ex art. 2105 c.c., è sufficiente la preordinazione di un’attività contraria agli interessi del datore di lavoro  anche solo potenzialmente  produttiva  di danno (Cass. 26 agosto 2003 n. 12489).
La violazione del dovere di fedeltà è fonte non soltanto di responsabilità disciplinare, che espone il lavoratore inadempiente alla sanzione del licenziamento per giusta causa (Cass. 14 febbraio 1996, n. 1131), ma anche di risarcimento civile, ove abbia cagionato un danno all’imprenditore.
A margine, si coglie l'occasione di ricordare che la "fedeltà" del Dipendente a beneficio dell'Azienda è anche salvaguardata a livello penale negli artt. 621, 622 e 623 c.p.
E’ utile, al riguardo, sottolineare che, mentre le prime due norme puniscono la rivelazione o l’uso di documenti segreti e/o di segreti professionali del cui contenuto il soggetto sia venuto a conoscenza per ragioni del proprio stato o ufficio, professione o arte qualora possa derivarne un danno, l’art. 623 del Codice Penale punisce la rivelazione o l’uso di scoperte o invenzioni scientifiche da chi ne abbia avuto notizia a prescindere dalla possibilità di danno.

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Alla luce di queste premesse, come può configurarsi il comportamento del Dipendente che sottragga documenti o che, all'insaputa del Datore di Lavoro, li metta a disposizione dell'Autorità Giudiziaria?
Sul punto, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che il lavoratore che produca, in un controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di atti aziendali che riguardano direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai doveri di fedeltà, di cui all’art. 2105 c.c.
L’applicazione corretta della normativa processuale in materia, infatti, è idonea ad impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell’azienda (Cass. 4 maggio 2002, n. 6420).

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C'è, però, un problema ...
Allo stato attuale, (e i casi li troviamo ampiamente documentati da LUCA ENRIQUES, Le regole della Finanza, IBL, 2012), non è infrequente che quando Dirigenti d'Azienda intentano denunce penali esse possono anche essere giuridicamente fondate, ma spesso sono strumentali. 
Questo rende l'accertamento della condotta del Dipendente "delatore" molto controversa e avvolta nell'oscurità e nell'ambiguità. Magari, il Dirigente denunciato ha commesso malversazioni; magari altri nell'Azienda ne hanno commesse di eguali e peggiori e non succede nulla. Non è, del resto, infrequente che le lotte intra-societarie assumano l'aspetto di faide (spesso tra familiari): l'assenza di "azionisti esterni" (cosa molto frequente nel Ns. classico "capitalismo ... sotto-capitalizzato") non fa scattare, poi, quegli incentivi alla trasparenza che altrove funzionano come propellente alla costruzione di una vera "cultura del controllo" all'interno delle società e delle imprese.
Pur non potendo in questa sede dilungarci più di tanto, non possiamo fare a meno di notare la circostanza che l'esercizio di un diritto civico (come può essere la denuncia di infrazioni penali) può comunque essere accompagnata da dolo di infedeltà, se non da solo di annientamento e distruzione. Ma va anche detto che, quando sussiste un processo penale in corso, anche a titolo di indagini preliminari, è assai difficile per l'Azienda, che si ritenga danneggiata dal comportamento del Dipendente, assumere iniziative di auto-tutela, come sanzioni disciplinari, istanze risarcitorie (es. per "concorrenza sleale"), iniziative scomode che si presterebbero, nel processo penale, ad essere valutate dagli organi inquirenti (parte comunque più forte nel processo penale, piaccia o non piaccia) come pressioni su un soggetto che è comunque nella stragrande maggioranza dei casi un testimone.
Insomma, quando il Dipendente diventa testimone, le cose si mettono sempre male!

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Come uscirne?
In Italia, è molto difficile venirne a capo, senza un'evoluzione del raiting di legalità e della cultura del controllo all'interno delle Ns. imprese, data la configurazione generalmente opaca, familiare e non aperta a capitale esterno delle Ns. imprese. 
Al momento, questi cambiamenti richiedono "salti" ed evoluzioni di medio-lungo periodo, richiedendo una radicale modificazione, se non scardinamento di abitudini gestionali e imprenditoriali consolidate.
Non è questa la sede per dire oltre. Ma una cosa la possiamo dire. 
E' cioè auspicabile che la Magistratura, nel suo "prudente apprezzamento", inizi a considerare queste vicende, mai isolatamente, mai facendo applicazione "ottusa" di norme e giurisprudenza, ma un'applicazione aderente alla realtà e all'evoluzione dell'etica intra-aziendale e della specifica cultura dell'Internal Audit.
Le tracce non mancano: ad esempio, la giurisprudenza da Noi più volte citata, elaborata per lo scrutinio della legittimità dei licenziamenti disciplinari (vedi tra le altre Cass. 2013/2012), richiede, in caso di gravi infrazioni del Dipendente, che l'Azienda non abbia sanzionato questa condotta una tantum, quanto seguendo una collaudata consuetudine interna di sanzioni. Proprio per le Banche questo principio giurisprudenziale è stato invocato per bocciare i licenziamenti di Dipendenti che avevano sì sottratto denaro, ma adeguandosi a "prassi molto lasse" entro l'istituto, che non solo non erano mai state stigmatizzate, ma nemmeno sanzionate.
La tolleranza del Datore non giova per licenziare il Dipendente.
Personalmente, sarei a chiedere che lo stesso ragionamento valga anche per il Dipendente, per quanto su questi ricada il più stringente obbligo di fedeltà.
Su questa base, i Giudici, sfruttando i poteri di trarre "argomenti di prova" ex. art. 116 dal comportamento complessivo delle parti, da altri procedimenti e simili, dovrebbero saper focalizzare i contesti reali, graduando  i giudizi di colpevolezza e responsabilità in modo armonico ed equilibrato tra Azienda e Dipendente, rimodulando in questo senso l'applicazione degli istituti penali e civilistici (es. riducendo  il risarcimento del danno richiesto dal Dipendente o compensando le pretese).
E' molto pretendere dalla giurisprudenza questo? Perchè se già queste misure dovessero consolidarsi e diventare non solo patrimonio degli Uffici Giudiziari, ma anche delle prassi aziendali, si sarebbe già fatto molto nella direzione degli "incentivi processuali" richiesti dal Prof. Italo-Americano di cui all'inizio.
Chè l'Italia non ha tanto bisogno di incentivare la "delazione" dei Dipendenti, quanto piuttosto di incentivare virtuose prassi aziendali di Internal Audit.

Dr. Giorgio Frabetti, Ferrara
Collaboratore Studio Francesco Landi, Consulente del Lavoro, Ferrara
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