AVVERTENZA: Dopo i post di dicembre dedicati ad un primo esame e commento della riforma forense appena approvata, pubblichiamo volentieri questa testimonianza di un Avvocato under 50, Marco Bona, che esprime le varie fonti di disagio e criticità indotte dalla normativa. Il brano è tratto da Altalex, 19 gennaio 2013. Vedi anche l'eBook "RiformaForense. Come cambia la professione di avvocato"
di Morena Ragone e Fabrizio Sigillò).
RICORDIAMO CHE PER QUESITI GIUSLAVORISTICI E PREVIDENZIALI INERENTI ALLE CONSEGUENZE DELLA RIFORMA FORENSE, POTETE ACCEDERE ALLA PAGINA FB DELLA STUDIO FRANCESCO LANDI DI FERRARA (CONSULENTE DEL LAVORO): https://www.facebook.com/pages/Studio-Landi-cdl-Francesco/323776694349912?fref=ts
Riforma forense: under 50 penalizzati da logiche logore, vessatorie e
masochistiche
Articolo 19.01.2013 (Marco Bona)
L’anno 2012 appena archiviato (un’annata
pressoché da dimenticare) si è concluso con un ultimo vulnus alla
mia attività di (relativamente “giovane”) avvocato: la riforma
forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247[1],
tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente (l’ultima
seduta utile!) dal Parlamento prima di cessare (finalmente!!!) di fare danni[2].
Tra i primi commenti si è affermato che
questa sarebbe una “riforma” che “attendavamo da 70 anni” (sic!) e che con
questa gli avvocati avrebbero “incassato” un altro “successo” (sic!) in questi
mesi di “rivincita dell’avvocatura” (sic!). Si prospetterebbe una “nuova vita
dell’Avvocatura” (sic!), con “maggiori opportunità di lavoro per i giovani”
(sic!). Insomma, una “buona notizia” (sic!). Gli avvocati sarebbero tornati sul
“piedistallo” (sic!) e recupereranno “dignità” (sic!).
Per me non è affatto
così, ed a leggere i commenti entusiastici del Presidente del CNF Guido Alpa (“orgoglio”
e “commozione”, sic![3])
e quelli positivi dell’O.U.A.[4] sulla
“nuova” (sic!) disciplina dell’ordinamento della professione forense non mi ci
ritrovo proprio ed anzi avverto viva irritazione: trattasi di una “riforma”,
scritta come al solito negligentemente, che non mi viene in alcun modo incontro
ed anzi mi penalizza in modo significativo quale avvocato quarantenne, con
studio associato inaugurato nel 2011, collaboratori e dipendenti a carico,
praticanti ogni anno sottratti all’attività di studio e torchiati a causa di un
esame destabile, vessato dallo Stato (tassazione a livelli micidiali, “sistema
giustizia” da terzo mondo, contributi unificati disincentivanti la tutela dei
cittadini, costi di gestione dello studio oltre ogni soglia immaginabile, leggi
e leggine ammazza liquidazione di onorari e costi giudiziali), svenato dalla
Cassa Previdenza Avvocati senza alcuna concreta prospettiva di una
contro-prestazione commisurata al versato, costretto ad adempimenti burocratici
di ogni sorta, defatiganti, dispendiosi a livello di tempo e pure costosi.
Si è espressa smisurata soddisfazione
per questa “riforma”[5], senza però
farsi i conti con le nostre tasche, con i nostri sudati guadagni e con i nostri
quotidiani sacrifici, con gli investimenti (personali ed economici) che
dobbiamo fare per rivestire il nostro ruolo, con l’enorme dispendio di tempo
che ci troviamo ad investire nella nostra attività, con i problemi concreti che
ogni giorni affrontiamo, con i nostri concorrenti (sempre più attrezzati), con
la sleale concorrenza operata da diversi colleghi (quelli che evadono il fisco,
che non sanno neppure cosa sia il “modello 5”, che sfruttano la manodopera di
praticanti e giovani avvocati), con il dramma di un esame d’accesso assurdo e
che penalizza sia i giovani, che effettuano un tirocinio effettivo, e sia gli
studi legali che li impiegano con serietà, con una serie di “riforme”
estremamente penalizzanti per i cittadini che vogliano accedere alla giustizia.
Altro che opportunità e “nuova vita” per
la professione forense, altro che “rilancio”, altro che brillante futuro per i
giovani colleghi (e pure per quelli che hanno sorpassato la soglia dei 40):
questa è l’ennesima dimostrazione che viviamo in un Paese governato da vecchi
(e destinato ad essere in futuro condotto dai loro portaborse), asfissiato da
logiche di casta e corporative. Un Paese che non sa guardare in faccia alla
realtà, che non concepisce la concorrenza, che ragiona secondo schemi
trapassati, che è destinato a divenire sempre più provinciale e periferico,
incompreso anche da chi eppure contribuisce a farlo sopravvivere.
Ecco qui di seguito, ancorché per sommi
capi, alcune delle ragioni che mi fanno detestare vivamente questa “riforma” e
che mi inducono a ritenermi del tutto inadeguatamente rappresentato
dall’“ordinamento forense” (CNF in testa)[6].
Preciso: non vi è alcuna particolare ideologia, alcuna preferenza politica o
altro recondito motivo dietro queste mie critiche: soltanto mero pragmatismo ed
elevata preoccupazione per la preservazione concreta del nostro ruolo di
difensori/promotori di diritti, ciò in un’Italia dove si fanno tante parole e
le si riveste adducendosi grandi concetti in realtà per difendere orticelli,
poltrone e privilegi ottocenteschi.
1) Art. 1 («Disciplina
dell’ordinamento forense»)
Certamente siamo tutti, almeno a parole,
fervidi sostenitori dei capisaldi della professione forense ribaditi in questo
primo articolo della “riforma”.
Peccato, tuttavia, che vi siano sempre
state e continueranno a registrarsi significative disparità di trattamento tra
avvocati, ciò a seconda delle realtà locali (determinate dai consigli degli
ordini) oppure dell’“eccellenza” di alcuni colleghi (tra cui anche noti
parlamentari) o anche solo dell’età.
Purtroppo anche per l’Avvocatura ci sono
mille Italie.
2) Art. 2 («Disciplina
della professione di avvocato»)
Per i “comuni mortali” l’accesso
all’albo degli avvocati è stato reso ulteriormente un calvario[7];
però la “riforma” si guarda bene dall’eliminare vecchi privilegi,
quale quello concesso ai “professori universitari di ruolo, dopo cinque anni
di insegnamento di materie giuridiche” che possono iscriversi senza
sostenere l’esame di accesso e senza magari essersi mai spellati le mani sui
fascicoli.
Soprattutto, nonostante i vari proclami
e sebbene alcuni commentatori esaltino il punto (chiaramente illudendosi), in
concreto non viene in alcun modo garantita agli avvocati l’esclusività
delle attività non giudiziali (quindi alcun risultato è stato conseguito a
questo riguardo).
Infatti:
- il testo finale della “riforma”[8] si
limita laconicamente ad affermare che “l’attività professionale di
consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove
connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo,
sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati”;
orbene, per questa via non si sancisce chiaramente l’esclusività e,
quindi, non si ha alcuna preclusione di natura normativa
opponibile ai concorrenti dell’Avvocatura, sempre più numerosi ed
organizzati; e poi chi farebbe rispettare questa supposta e labile
“riserva” di attività? Siamo dinanzi al solito “specchietto per le
allodole”: tanto fumo, poco arrosto; peraltro, non dovremmo scordarci dei
diversi interventi – tra l’altro condivisibili in diritto – preclusivi di
interpretazioni estensive di tale disposizione ed anzi tali da renderla
costituzionalmente illegittima[9];
- in contraddizione con il principio
dell’indipendenza, “È comunque consentita l’instaurazione di rapporti
di lavoro subordinato …, aventi ad oggetto la consulenza e l’assistenza
legale stragiudiziale, nell’esclusivo interesse del datore di lavoro ...
Se il destinatario delle predette attività è costituito in forma di
società, tali attività possono essere altresì svolte in favore
dell’eventuale società controllante, controllata o collegata, ai sensi
dell’articolo 2359 del codice civile”;
- salvo è poi il super-potere concesso alle
associazioni dei consumatori, i cui esponenti (spesso dei colleghi),
godendo peraltro di ingenti (e spesso immeritati) sovvenzionamenti
pubblici, possono permettersi di tutto (in primis attività
promozionali in televisione, sulle radio, su giornali), tutto ciò a
discapito di quegli avvocati che si astengono dall’operare sotto le
mentite spoglie di associazioni ed enti esponenziali.
In breve, rimangono dinanzi a noi,
armati come prima, tutti i nostri concorrenti (società di infortunistica,
“tribunali” dei pazienti, dei vacanzieri e di altri soggetti, società di
recupero credito, società di supporto “tecnico” alle assicurazioni, alle banche
ed alle imprese, associazioni dei consumatori variamente denominate, organismi
dediti al volontariato, organismi di mediazione e conciliativi, camere di
commercio, carrozzieri, ecc.), con la differenza che questa “riforma” ci priva
di tutta una serie di strumenti per resistere alla concorrenza e competere sul
mercato, oltre vessarci ulteriormente sotto plurimi profili. Verrebbe da
osservare come occorra davvero una certa qual propensione al masochismo per
elogiarla.
Chiariamoci poi su un punto: è del tutto
illusorio pensare che oggi, stando al quadro normativo europeo che liberalizza
la maggior parte dei servizi professionali e la stessa posizione assunta dalla
Corte costituzionale e dalla Cassazione nostrane nel passato[10],
sia giuridicamente e concretamente possibile precludere ai cittadini di
rivolgersi a persone e società che operano ormai da diversi decenni[11] e
arrivano a loro molto più agevolmente di noi avvocati, tra l’altro
presentandosi con accordi economici decisamente più convincenti. Invece di
pensare ad introdurre riserve del tutto illusorie ed inattuabili (comunque
fuori da ogni realtà praticabile), i lungimiranti “riformatori” della
professione forense avrebbero dovuto dotarci di tutti gli strumenti del caso
per poter concorrere, per promuovere la tutela dei diritti delle persone al
pari dei nostri concorrenti. Insomma: nulla avrà a mutare nella sostanza e
continueremo a trovarci costretti a scendere a patti e compromessi con i nostri
concorrenti, essendo pure da segnalarsi come diversi colleghi già siano stati
soggiogati dagli stessi.
Dunque altro che nuove opportunità di
lavoro, essendoci viceversa impedito di andarle a ricercare, di promuovere
adeguatamente ed attivamente i nostri servizi e le nostre qualità, di fare
ricorso ai modelli contrattuali che i nostri concorrenti sono bravissimi ad
impiegare.
Una semplicissima domanda: in quale
realtà vivono i “riformatori” dell’Avvocatura?
Evidentemente qualcuno non ha ben
afferrato che i privilegi del passato e quelli che si vorrebbe vedere affermati
non conducono più da nessuna parte, soprattutto di questi tempi: tentare di
rivitalizzarli è soltanto una battaglia di retroguardia, persa in partenza,
della quale al massimo possono godere le generazioni più attempate. Ad
insistere su politiche volte a preservare od istituire privilegi stiamo solo
perdendo tempo prezioso, ciò a tutto vantaggio dei nostri concorrenti (peraltro
spalleggiati da soggetti come, per esempio, ABI, ANIA, Confindustria,
Confcommercio, Confagricoltura, Confartigianato, Confcooperative, Associazione
Generale Cooperative Italiane, nonché da AGCM).
Dovremmo invece organizzarci per
concorrere sul mercato senza temere confronti di sorta.
Ed invero, a questo riguardo, non si è
neppure compreso da parte dei nostri rappresentanti come molti di noi (quelli
formatisi nell’era degli studi legali fattisi autentiche realtà imprenditoriali[12])
saremmo perfettamente in grado di concorrere, se solo fossimo
dotati di tutti gli strumenti del caso.
Noi delle nuove generazioni non abbiamo
bisogno di privilegi (comunque inaffidabili e destinati a sicure censure), ma
necessitiamo di poter giocare – fermo restando il rispetto del decoro
professionale (tuttavia modernamente inteso) – la partita in corso.
A non voler ragionare in termini di
concorrenza favoriamo semplicemente i nostri concorrenti.
Ho sopra rilevato che il comma 6 dell’art.
2 della «Nuova disciplina dell’ordinamento della professione
forense» («Fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente
individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla
legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l’attività
professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove
connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo,
sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati») non mi sembra
norma destinata a conseguire particolari ribaltamenti di prospettiva.
Il punto va ulteriormente argomentato in
diritto.
Questa norma è invero lungi dal potersi
interpretare nel senso di garantire agli avvocati una riserva illimitata sulle
attività non giudiziali.
In primo luogo deve evidenziarsi la
differenza corrente, a livello terminologico, tra il comma 6 (che stabilisce la
“competenza” degli avvocati relativamente alla consulenza legale e di
assistenza stragiudiziale, senza peraltro associare l’aggettivo “esclusiva”) ed
il comma 5, ove invece le attività giudiziali sono qualificate come “esclusive”
dell’avvocato.
In secondo luogo – nondimeno questo è il
punto più rilevante – va segnalata, in seno al comma 6, la presenza
dell’inciso, decisamente ambiguo e comunque fonte di significative incertezze,
per cui la “competenza” dell’avvocato relativamente all’attività di
consulenza legale e di assistenza stragiudiziale opera soltanto “ove
connessa all’attività giurisdizionale”.
Questo inciso assume senz’altro rilievo
centrale, poiché indubbiamente va interpretato nel senso di limitare, in
qualche modo, la portata della predetta “competenza” assegnata dalla
norma agli avvocati, dovendosi, ad inconfutabile conferma di ciò, considerare,
in applicazione dell’art. 12 delle preleggi, come la disposizione in commento,
introdotta con un emendamento alla Camera dei Deputati, sia nettamente diversa
dalla previsione contenuta nel precedente testo (cfr. Ddl 23 novembre 2010, n.
1198-A) approvato dal Senato in prima lettura, che riservava agli avvocati in
via generale l’intero settore stragiudiziale, indipendentemente dalla
connessione con l’attività giurisdizionale.
Quale sia poi il significato esatto e
concreto da attribuirsi all’inciso in questione rimane indubbiamente un
autentico mistero, ma potrebbe sostenersi funditus la necessità
di un’interpretazione restrittiva, per cui sarebbero da considerarsi
“connesse all’attività giurisdizionale” (dal latino iurisdictio, a
sua volta derivato da ius dicere) soltanto quelle
attività materialmente prodromiche all’instaurazione di un giudizio (si pensi
alla “mediazione obbligatoria”, tra l’altro recentemente abrogata dalla Corte
costituzionale, all’informativa sulla mediazione facoltativa, o, ancora, a
sistemi conciliativi imposti legislativamente per l’avvio della fase
giudiziale; si pensi altresì all’acquisizione del mandato alle liti oppure
all’informativa da fornirsi al cittadino circa i rischi di un giudizio) oppure
tali da incidere su un processo già in corso (come, per esempio, l’assistenza
del cliente nel raggiungimento, “fuori udienza” di una transazione tale da
mettere fine ad un giudizio in corso).
La necessità di un’interpretazione
restrittiva può trarsi dalle seguenti considerazioni:
- in primo luogo, occorre attribuire rilievo al
passaggio dai precedenti testi in discussione in Parlamento (che
preventivano un’esclusiva generalizzata) alla norma definitivamente
approvata (che invece circoscrive l’operatività della “competenza”);
- in secondo luogo, occorre preservare un
significato in capo alla presenza nella lettera della norma dell’inciso in
questione, che, latamente interpretato, potrebbe risultare svuotato di
ogni portata, ciò in tutta evidenza contrariamente all’intenzione del
legislatore di circoscrivere la “competenza” prevista in capo agli
avvocati;
- infine, interpretazioni estensive di tale
disposizione potrebbero risultare costituzionalmente illegittime[13] e,
comunque, suscettibili di censure alla luce della normativa, innanzitutto
di origine comunitaria, sulla concorrenza, censure che, stanti i numerosi
precedenti giurisprudenziali legittimanti l’attività stragiudiziale da
parte di soggetti diversi dagli avvocati, potrebbero trovare avvallo anche
nella giurisprudenza[14].
In definitiva:
- è indubbio che la norma in commento non sia in
alcun modo tale da sancire chiaramente, in capo all’Avvocatura,
l’esclusività relativamente a tutte le attività stragiudiziali;
- sicuramente sostenibile è l’interpretazione
restrittiva degli effetti di questa disposizione, sicché il suo futuro,
lungi dall’essere già scritto e dal risolversi per certo in favore
dell’Avvocatura, sarà determinato dalle risposte che perverranno dalla
giurisprudenza (verosimilmente tali da confermare le precedenti posizioni)
e dalle autorità/istituzioni, nazionali e non, aventi competenza in
materia di concorrenza;
- la sostenibilità dell’interpretazione restrittiva
dovrebbe altresì legittimare - pur con tutte le cautele del caso e ferma
restando l’incognita (pur parziale a fronte dai pronunciamenti già
intervenuti in materia) costituita dai futuri orientamenti
giurisprudenziali - la prosecuzione di attività di consulenza legale e
stragiudiziale da parte dei soggetti già ritenuti dalla giurisprudenza di
legittimità degni di svolgerle[15].
3) Art. 5 («Delega
al Governo per la disciplina dell’esercizio della professione forense in forma
societaria»)
In primo luogo la “riforma” rimette al
Governo il potere di legiferare sul punto: eccoci nuovamente dinanzi
all’ennesimo rinvio all’Esecutivo, che in questi anni, a prescindere dai suoi
cangianti colori politici, ha saputo consegnarci norme frequentemente (se non
sempre) deprecabili e, comunque, significativamente avverse alla nostra
professione.
Ad ogni modo senz’altro condivisibile,
nel segno dell’indipendenza e dell’autonomia dell’Avvocatura, è che il Governo
debba attenersi al seguente criterio direttivo: “prevedere che l’esercizio
della professione forense in forma societaria sia consentito esclusivamente a
società di persone, società di capitali o società cooperative, i cui soci siano
avvocati iscritti all’albo”.
Non vorremmo per certo studi legali “posseduti”
da banche, assicurazioni, catene di supermercati, tour operator, società di
infortunistica od altro: non tanto per una questione di concorrenza, ma perché
salterebbe del tutto l’indipendenza di un numero elevatissimo di colleghi (mi
riferisco in particolare agli studi legali di dimensioni ridotte), con ricadute
di segno negativo sulla tutela di diritti anche fondamentali. Soprattutto si
prospetterebbe il rischio della definitiva conquista del “sistema giustizia” (in
primis quanto al suo accesso) da parte dei nuovi (invero neppure tanto
nuovi) “regimi di potere”.
Viene tuttavia da domandarsi se qualcuno
tra gli esimi colleghi, che ci hanno rappresentato nell’iter di approvazione
della “riforma”, si sia posto il problema della concorrenza che, ogniqualvolta
cerchiamo di competere sul fronte internazionale o con studi stranieri operanti
sul nostro territorio, proviene da tali studi, che invece annoverano
notoriamente, ancorché non tutti, soci investitori di tutto rilievo che nulla
hanno a che vedere con la professione forense.
In breve, ancora una volta l’avvocatura
italiana si ritrova privata di strumenti concorrenziali di significativa
importanza, trascurandosi di considerare la realtà che ci circonda anche in
casa. Il nostro si conferma un Paese per vecchi, non già per chi deve
affrontare il futuro.
Forse sarebbe stato opportuno prevedere
delle regole sì rigide ma tali da riequilibrare il divario che ci separa dai
concorrenti internazionali (che poi operano anche a casa nostra).
Peraltro la norma sembrerebbe così
precludere agli avvocati italiani di convergere con colleghi stranieri in
forme societarie, annoveranti altresì (con tutte le cautele del caso sul piano
delle decisioni) di investitori-soci di capitale, per la gestione di casi
internazionali, prospettiva questa del tutto trascurata dai “riformatori”
(evidentemente a digiuno delle questioni di case funding delle
quali si discute nei consessi internazionali, fatta forse eccezione per i
congressi di mera accademia che poco interessano agli avvocati).
Discutendosi poi di società, sarebbe
stata opportuna una qualche considerazione dei profili fiscali (eppure
rilevantissimi).
4) Art. 9 («Specializzazioni»)
L’idea di creare delle forme di
accreditamento per gli avvocati, i quali intendano qualificarsi come
“specializzati” in un determinato settore, è senz’altro ottima. La Law
Society inglese, per esempio, ha istituito da anni un sistema di
questo tipo.
Sennonché in Italia incontriamo sempre
delle difficoltà a concretizzare per via normativa le buone idee.
Innanzitutto anche per questa ipotesi si
prospetta un rinvio ad un ulteriore passaggio legislativo, questa volta
affidato ad un regolamento adottato dal Ministro della giustizia previo parere
del CNF.
Deprecabile è soprattutto che il
conseguimento del titolo di specialista possa acquisirsi anche soltanto
attraverso “percorsi formativi”, senza richiedersi congiuntamente una
“comprovata esperienza nel settore di specializzazione” (la norma,
infatti, recita che “Il titolo di specialista si può conseguire all’esito
positivo di percorsi formativi almeno biennali o per
comprovata esperienza nel settore di specializzazione”).
L’avvocato, per qualificarsi
specializzato in una materia, sì dovrebbe studiare e frequentare corsi (e
dovrebbero bastare, laddove mirati su determinate materie, quelli funzionali
alla formazione continua), tuttavia in primo luogo dovrebbe maturare le sue
“speciali” competenze affrontando quotidianamente, a stretto contatto con i
clienti, le reali problematiche di questi e del contenzioso; invece la
“riforma” ci consegna la prospettiva di avvocati “artificialmente”
specializzati, dotati di un distintivo conseguito a tavolino.
Inoltre:
- siamo davvero convinti che sia sufficiente un
percorso formativo “almeno biennale” (senza – N.B. –alcuna
esperienza pratica specialistica) per qualificarsi, ad esempio,
giuslavorista od esperto in diritto di famiglia?
- che senso da un lato concedere il titolo di
specialista ad un legale privo di esperienza concreta per il sol fatto di
avere frequentato per due anni un corso formativo e dall’altro lato
esigere che, per conseguire il medesimo titolo “per comprovata esperienza
professionale maturata nel settore oggetto di specializzazione”
occorra avere “maturato una anzianità di iscrizione all’albo degli
avvocati, ininterrottamente e senza sospensioni, di almeno otto anni”
e che si dimostri di “avere esercitato in modo assiduo, prevalente e
continuativo attività professionale in uno dei settori di specializzazione
negli ultimi cinque anni”? Vogliamo continuare a premiare chi può
permettersi il tempo di frequentare corsi a detrimento di chi invece si
spacca le ossa sul lavoro?
- per quali ragioni i percorsi formativi in
questione devono necessariamente essere organizzati presso le facoltà di
giurisprudenza? Forse per dare lavoro alla pletora di accademici che nulla
sanno della professione e delle problematiche reali, quelle cioè sulle
quali si forma il vero specialista? Forse che i consigli
degli ordini o le società specializzate nella formazione forense non
sarebbero in grado di organizzare (attraverso professionisti di comprovata
esperienza in questo o quel settore) corsi altrettanto affidabili e seri?
5) Art. 10 («Informazioni
sull’esercizio della professione»)
A leggere questo articolo viene
innanzitutto in evidenza come non si faccia cenno ad un’informazione importante
per i nostro potenziali clienti: i compensi professionali, perlomeno a livello
di criteri generali.
Ciò ha dell’incredibile, se solo si
considera come tutti i nostri concorrenti (società di infortunistica, società
di recupero crediti, associazioni dei consumatori, ecc.) liberamente possano
promuovere i trattamenti economici accordati (ivi comprese eventuali gratuità).
Promuoversi parlando di danaro non sarà
forse “nobile” per l’avvocato, ma è ormai una necessità per concorrere sul
mercato. E non mi si venga a raccontare che la professione forense non dovrebbe
ragionare in termini di mercato: questa è la realtà che viviamo e che determina
la nostra stessa sopravvivenza.
La “riforma”, inoltre, nulla riferisce
circa la possibilità di svolgere una promozione “attiva” dei nostri servizi:
mentre i nostri concorrenti possono andare anche a bussare di porta in porta,
noi dovremmo rimanere reclusi nei nostri studi, essendoci peraltro precluso,
per quanto consta, di organizzarci con promotori e agenti. Trattasi di una
situazione che non solo ci danneggia, ma finisce per colpire anche i cittadini,
sottratti agli studi legali e conquistati da altre realtà. E finisce per
colpire gli avvocati “onesti”, i quali, per rispettare le regole, subiscono la
concorrenza di loro colleghi attrezzatisi nei modi più disparati.
Sia chiaro: permetterci di fare
promozione “attiva” non significa mica concederci di andare in giro a
raccontare “frottole” e distribuire false illusioni per accaparrarci clienti,
essendo che siamo vincolati a precisi doveri di correttezza, buona fede, decoro
professionale, verità, promozione dei diritti. Significa solo permetterci di
mettere a frutto la nostra professionalità, i nostri investimenti, di
promuovere (non dimentichiamolo!) la tutela di diritti.
Sono davvero stanco di dover guardare
alla finestra, di dover pagare per la mia attività quanto un imprenditore,
senza però poter sfruttare e promuovere – pur nel rispetto di tutti i principi
del caso – il frutto del mio enorme e supertassato impegno.
Forse che per ragioni di un’etichetta
professionale ormai vetusta dovremmo lasciare la tutela e la promozione dei
diritti ad altri che non si sono fatti le ossa su codici, leggi e sentenze?
6) Art. 11 («Formazione
continua»)
Sicuramente è giusto, attesa la pigrizia
culturale di molti, che gli avvocati siano costretti alla formazione continua.
Ciò che non si condivide della “riforma”
è quanto segue:
- gli impegni affrontati per assolvere alla
formazione continua non saranno sufficienti per accedere alle
giurisdizioni superiori (paradossalmente chi avrà parecchio lavoro, un sovraccarico
di impegni e tante responsabilità si troverà costretto a rinunciare a
divenire cassazionista);
- sono previste una serie di esclusioni che
suonano molto quali autentici privilegi.
Infatti, “Sono esentati dall’obbligo [di
formazione continua]: … gli avvocati dopo venticinque anni di
iscrizione all’albo o dopo il compimento del sessantesimo anno di età; i
componenti di organi con funzioni legislative e i componenti del Parlamento
europeo; i docenti e i ricercatori confermati delle università in materie
giuridiche”.
E perché mai queste esclusioni?
Per quali motivi diverrebbe non più
necessario garantire ai cittadini degli avvocati aggiornati e competenti,
quando questi ultimi siano “anziani”? Forse che la “riforma” è stata ispirata
da avvocati di una certa qual età?
Per quali recondite ragioni i vari
avvocati, che siedono in Parlamento, in un consiglio regionale o in altra
istituzione con funzione legislativa, dovrebbero andare esenti dagli obblighi
di formazione continua, laddove decidano di continuare ad esercitare
attivamente la professione nonostante l’assunzione di un gravoso incarico
istituzionale (magari, come del resto verificatosi in varie occasioni[16],
pure avvantaggiandosi di questo ruolo per promuovere la loro attività
professionale)[17]?
E perché mai docenti e ricercatori
confermati, qualora ritengano di avere anche il tempo per dedicarsi
all’attività professionale (sottraendolo ad attività didattiche, ricevimenti
studenti e ricerca), non dovrebbero sottoporsi agli oneri formativi cui
soggiacciono i loro colleghi meno blasonati?
Insomma, se ci sono degli obblighi da
assolvere per svolgere la professione, questi dovrebbero valere per
tutti, nessuno escluso. Ma lo si sa: l’Italia è il Paese in cui i privilegi
imperversano, sempre a vantaggio dei soliti noti.
7) Art. 12 («Assicurazione
per la responsabilità civile e assicurazione contro gli infortuni»)
Ottima e doverosa la previsione
dell’obbligo ad assicurarsi, senonché non si comprende proprio per quale
ragione la norma si limiti ad asserire molto genericamente che la mancata
osservazione di tale dovere “costituisce illecito disciplinare” invece
che fissare con estrema chiarezza la sanzione della sospensione in assenza di
polizza. Non occorre certamente la sfera di cristallo per prevedere che così
gli avvocati più diligenti si troveranno dinanzi alla solita discriminazione
perpetrata da quei consigli dell’ordine che, come in altre occasioni (per
esempio la trasmissione del modello 5), sono soliti chiudere entrambi gli occhi
sul rispetto di norme di questo tipo.
Si spera poi che gli organi che,
rappresentano l’Avvocatura, si facciano finalmente valere con le compagnie
assicuratrici per metterci a disposizione delle polizze che non siano una
uguale all’altra, le cui clausole siano suscettibili, caso per caso, di
un’effettiva contrattazione (non già imposte dal solito cartello assicurativo e
di fatto immodificabili) e tali da coprire rischi di tutto rilievo (allo stato,
per esempio, non c’è alcuna polizza che contempli la copertura per i danni
contrattuali non patrimoniali lamentati dal cliente). Insomma, delle convenzioni
con i soliti noti non ce ne facciamo molto, se poi ci ritroviamo con polizze “claims
made” standard ed immodificabili.
Confidiamo infine che i prezzi delle
polizze non salgano alle stelle: già siamo sommersi da costi notevoli e ci
mancherebbe pure di dover fronteggiare polizze salate, tra l’altro noto essendo
che praticamente mai le assicurazioni pagano i sinistri professionali
stragiudizialmente, ciò con conseguenze devastanti per noi avvocati e i
cittadini.
8) Art. 13 («Conferimento
dell’incarico e compenso»)
Tra i punti più dolenti in assoluto
della “riforma” si colloca indubbiamente quello relativo ai compensi, ciò
proprio in un momento di generalizzata sofferenza economica anche per la nostra
professione.
Innanzitutto desta vivo stupore, per la
sua estrema genericità, la seguente norma (comma 1): «L’incarico può essere
svolto a titolo gratuito». Infatti, essendosi in Italia (un Paese in cui
una fetta cospicua dell’Avvocatura ha dato notevoli prove di attaccamento
all’evasione fiscale), ben si potrà immaginare l’impiego futuro di questa
disposizione.
Non già che il lavoro pro bono per
fini sociali ed a favore delle persone indigenti non sia da incentivarsi
(anzi), ma proprio per i noti vizi riscontabili anche nella nostra professione
sarebbe stata imprescindibile (nonché sintomo di buona fede degli ispiratori e
dei redattori della norma) una dettagliata disciplina delle prestazioni rese
“gratuitamente”[18].
Ma come al solito in Italia si “riforma” per nulla in concreto riformare, e
così ci troveremo dinanzi alla solita questione: nel nostro bel Paese c’è
sempre una qualche scappatoia legislativa per coloro che non hanno senso civico
e magari si fanno pure beffa degli onesti.
“La pattuizione dei compensi è libera”,
peccato che poi (art. 13, comma 4) si affermi che “Sono
vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in
parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa”.
La lettera di questa norma è invero
lungi dall’essere chiara (il che, a prescindere da ogni ulteriore questione, è
già di per sé una gravissima pecca del provvedimento[19]),
peraltro ponendosi in manifesta e inequivocabile contraddizione con il
principio, pure affermato dalla “riforma” in seno allo stesso articolo (comma
5), per cui “è ammessa la pattuizione … a percentuale sul valore
dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello
strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione” (ma è mai
possibile che in Italia si riescano a scrivere norme che da un rigo all’altro
contrastino platealmente?).
Secondo alcuni commentatori in realtà il
comma 4 dell’art. 13 non sancirebbe il ritorno al divieto dei patti quota lite:
“La riforma forense appena approvata consente tale patto”, ponendo
tuttavia “uno specifico limite” (cioè “impedisce che l’avvocato
percepisca, come compenso, una quota del bene oggetto della prestazione”).
Il che, secondo questa versione, unicamente “significa che il professionista
non può, attraverso la vittoria di una lite o la positiva gestione di una
trattativa, diventare socio, quotista o comproprietario di un bene insieme al
suo cliente”, ossia “l’avvocato può esigere il pagamento della quota
lite, ma solo in danaro, senza poter obbligare il cliente a condividere il
bene. In tal modo, si applica alla professione il divieto al “patto
commissorio” (articolo 2744 del Codice civile)”[20].
Nondimeno, si potrebbe di contro
sostenere – e questa sembra decisamente la versione più corretta (a partire dal
fatto che per «bene» si intende anche il denaro)[21] –
come così si sia ripristinato quanto sostanzialmente già era previsto dal
“vecchio” terzo comma dell’art. 2233 c.c.[22],
che era stato sostituito nel 2006 dal “decreto Bersani” con la seguente formulazione:
“Sono nulli [c.c. 1418], se non redatti in forma scritta, i patti conclusi
tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono
i compensi professionali”).
La reintroduzione del divieto di patto
quota lite, sostenuta da altri commentatori[23],
sarebbe davvero assurda, discriminatoria (ad essere colpiti sono gli avvocati
che si occupano di risarcimento e non già quelli che affrontano altre questioni),
anacronistica, masochista, vessatoria per gli avvocati (e pure per i clienti),
e non si capisce proprio per quale motivo dovrebbe suscitare un qualche
entusiasmo o addirittura “commozione”.
Sono prevalsi i soliti preconcetti
contro questo tipo di pattuizione?
Sicuramente sì (laddove si ritenesse
corretta l’interpretazione circa gli effetti abrogativi di tale patto). Senza
che nessuno tra i “riformatori” si sia in alcun modo peritato di svolgere le
indagini del caso sull’impiego dei patti quota lite da parte dell’Avvocatura
italiana a seguito della loro legittimazione per effetto del “Decreto Bersani”
(2006), avrebbero “vinto” coloro che, tra l’altro ignorando i risultati della
comparazione giuridica, continuano a spacciarci i patti quota lite per un
modello rinvenibile solo al di là dell’Atlantico (quando invece sono previsti
anche in Francia, tanto per fare un esempio a noi vicino, in Germania[24],
in Olanda, in Grecia[25] ed
in Spagna[26],
nonché in altri diversi Stati sia europei[27] e
sia extraeuropei) e tra l’altro deleterio per i cittadini e per l’accesso alla
giustizia (il che non corrisponde affatto al vero, avendo questo tipo di
accordi permesso la tutela, da parte degli avvocati, di migliaia di danneggiati
contro banche, assicurazioni, colossi imprenditoriali, enti pubblici, ecc.).
Viene altresì il sospetto che la
(comunque riaperta prospettiva) della preclusione dei patti quota lite (che
hanno senso soprattutto nelle materie aventi per oggetto il risarcimento dei
danni) corrisponda a (o comunque sia il frutto di) una precisa scelta –
ispirata da una ben determinata “politica del diritto” (senz’altro
“reazionaria”) - finalizzata a disincentivare, colpendo innanzitutto gli
avvocati dei danneggiati, la promozione di azioni risarcitorie contro i soliti
noti (e non è un caso – si noti bene – che oltreoceano i “poteri forti”
abbiano, tra le varie strategie messe a punto per detronizzare la responsabilità
civile, condotto vere e proprie crociate contro i patti quota lite, fenomeno
che il Presidente del CNF, stimato comparatistica, dovrebbe ben conoscere):
questo modello contrattuale, infatti, non piace affatto a chi è esposto a
subire cause, perché non solo incentiva gli avvocati ad affrontare le
controversie ma altresì (e questo viene occultato nella retorica riformista)
facilita i clienti nell’accesso alla giustizia.
Ciò notato, il patto quota lite – va
detto molto chiaramente – viene (rectius potrebbe essere stato!)
abrogato in un momento storico contraddistinto dai seguenti fenomeni (tutti
ignorati – anzi, a voler pensare male, forse invece contemplati – dai redattori
della norma e dai “fan” della novella):
- i cittadini non hanno più
particolari disponibilità economiche per affrontare cause spesso (quasi
sempre) dagli esiti incerti (la giurisprudenza è vieppiù ondivaga) e che
tuttavia richiedono esborsi notevoli (perizie tecniche sempre più esose,contributi
unificati ormai vessatori[28],
ecc.), tali da precludere all’avvocato di richiedere al cliente
danneggiato acconti in qualche misura idonei a giustificare e sostenere il
dispendio di tempo e di risorse (umane, di struttura, ecc.) per affrontare
la controversia (inesorabilmente, giacché ci troviamo in Italia, destinata
a durare anni)[29];
- · le liquidazioni delle competenze professionali
giudiziali risultano decisamente ribassate (oltre che dimezzate) in
seguito all’approvazione del punitivo D.M. 20 luglio 2012, n. 140 (uno
scandalo a parte!), in un contesto già connotato da una magistratura
costantemente incline a liquidare agli avvocati poco a titolo di onorari e
spese di causa[30];
non si può fare affidamento alcuno su quanto liquiderà il giudice;
- i costi di gestione degli studi legali sono
saliti alle stelle con una tassazione abnorme (aggiungendosi una cassa
previdenza esosa);
- si ha la concorrenza da parte di soggetti vari
(società infortunistiche in primis) liberi invece
di stipulare accordi di questo tipo.
Ciò rilevato, è peraltro inconfutabile come
in questa situazione il patto quota lite, laddovecorrettamente e
con senso della misura concepito ed applicato dall’avvocato[31],
risulti invero gradito dai clienti, e ciò lo si è toccato con mano in questi
tempi (sia personalmente e sia sentendo i colleghi) ed è pure comprovato dal favor che
incontrano le società di infortunistica che per l’appunto (e commercialmente
non a caso) operano proprio con tale approccio.
Perché è ben accetto dai clienti?
Essenzialmente per i seguenti motivi:
- il cliente si trova dinanzi a regole chiare e che
può agevolmente comprendere;
- l’assistito è agevolato nell’accesso alla
giustizia, in quanto si trova dinanzi ai seguenti scenari: a) non gli
vengono normalmente richiesti acconti per la fase stragiudiziale e spesso
anche per affrontare il giudizio (se non magari fondi spese di limitato
impatto economico); b) nel caso di sconfitta il suo rischio di causa verso
il proprio legale è notevolmente circoscritto (generalmente, accanto
all’acconto versato, dovrà soltanto farsi carico dei costi vivi); c) può
contare sul fatto che, se l’avvocato è disposto a condividere i rischi di
causa, crede effettivamente nella fondatezza dei suoi diritti; d)
garantisce maggiore serenità ai clienti.
Per queste medesime ragioni e proprio
per la situazione innanzi descritta esso è pure condiviso dagli avvocati, che,
senza preconcetti (e pure eticamente[32]),
lo hanno applicato.
Il patto quota lite, inoltre, permette
ai legali di:
- accedere ad una remunerazione che ben si meritano
(magari dopo anni di causa, la spendita di notevoli energie e l’assunzione
di significativi rischi), senza dover dipendere dalle prebende
riconosciute dalla magistratura (frequentemente avara);
- concorrere con tutti quei soggetti che possono
liberamente stipulare contratti di questo tipo.
Si è obiettato che i patti quota lite
sarebbero tali da incidere negativamente sui diritti sostanziali dei cittadini.
Forse che nel passato (quello antecedente il “decreto Bersani” del 2006) gli
avvocati, che si accontentavano di quanto liquidato dai giudici, erano la
maggioranza? Non prendiamoci in giro: “palmari” e accorgimenti simili (fatti
pagare rigorosamente in nero) hanno sempre imperversato nella nostra
professione (con la differenza, rispetto ai patti quota lite di cui al “decreto
Bersani”, di non essere neppure oggetto di preliminari accordi scritti tra le
parti). Inoltre, come osservato dalBundesverfassungsgericht[33],
i patti quota lite possono permettere ai cittadini di accedere alla giustizia,
il che è senz’altro ancor più vero in un periodo storico in cui l’esercizio
dell’attività forense costa sempre di più (soprattutto se si pagano
collaboratori, tasse e aggiornamenti continui degli strumenti di lavoro), i
giudici liquidano vieppiù di meno agli avvocati ed i clienti (già vessati dallo
Stato con elevati contributi unificati) non hanno particolari risorse da anticipare
o da rischiare nell’eventualità di risultati negativi o, comunque, non
particolarmente soddisfacenti (con ul legislatore, tra l’altro, incline a
tagliare ovunque sulla tutela risarcitoria degli individui).
Semmai, per ovviare ai possibili abusi
di questo strumento e garantire i cittadini, si sarebbe potuto e dovuto
insistere con il legislatore non già per un diniego assoluto dei patti quota
lite (posto che questo sia effettivamente l’intendimento della norma), bensì
per una loro più dettagliata e puntuale disciplina soprattutto in relazione ai
limiti massimi della quota (prevedendosi per esempio il tetto massimo del 25%,
come si ha in Francia), stabilendosi altresì la commisurazione della
percentuale all’entità del rischio di causa ed alla presenza/assenza di
determinate clausole (ad esempio l’accettazione dell’avvocato a lavorare su
base “no win no fee”).
Insomma, questa “riforma” (rectius la
controriforma) potrebbe privarci, senza che si sia compiuta preliminarmente
alcuna indagine seria, di (giuste) prospettive di possibili guadagni in tempi
di crisi, in un periodo in cui siamo già taglieggiati su tutti i fronti.
Rischia di disincentivarci alla promozione di azioni risarcitorie. Scoraggerà
(laddove da intendersi in senso abrogativo) i cittadini a rivolgersi a noi e
nell’accesso alla giustizia, trovandosi questi di nuovo sottoposti ai metodi di
pagamento tradizionali e difficilmente sostenibili (per non parlare poi della
scarsa concorrenzialità che il divieto produce nel rapportarci con i nostri
competitor internazionali). Incentiverà i potenziali clienti a rivolgersi a
tutta una serie di altri soggetti invece legittimati a stipulare patti quota
lite.
Ed allora perché mai dovremmo gioire e
commuoverci per questa “riforma”, che (verosimilmente) aggiunge la prospettiva
di ulteriori perdite di guadagno ed allontana i cittadini dai nostri studi per
consegnarli nelle mani dei nostri concorrenti che i patti quota lite li possono
fare?
Dovrei sentirmi rappresentato con
soddisfazione dal CNF tanto entusiasta della “riforma”? Come si può affermare
che questa sia una riforma che “potrà rilanciare” il nostro lavoro?
Perché mai a noi avvocati sarebbe
precluso il patto quota lite mentre invece per le altre professioni non lo è[34]?
Perché il CNF si compiace di questa discriminazione?
Al lato pratico occorre comunque
domandarsi come fronteggiare tale divieto (posto che di divieto trattasi!).
Innanzitutto, quale che sia la sua
interpretazione, chiara è l’irretroattività della novella
disposizione (cfr. art. 11 preleggi): dunque, tutti gli accordi stipulati sino
all’entrata in vigore della nuova disciplina rimangono sicuramente validi.
E per i contratti stipulati
successivamente all’entrata in vigore del divieto? Quale futuro si prospetta?
In primo luogo, potrebbe sostenersi,
anche a fronte delle contrapposte letture del comma 4, come la “riforma” non
risulti tale da poter abrogare in alcun modo con effetti immediati l’art. 2,
comma 1, lett. a), del d.l.
4 luglio 2006, n. 223 (più noto come “decreto Bersani”,
convertito dalla legge n. 248 del 4 agosto 2006), che
cancellava il “divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento
degli obiettivi perseguiti”. Infatti, potrebbe sostenersi come tale
abrogazione (laddove effettivamente sia tale) sia stata delegata ad un
provvedimento successivo del Governo, tenuto ad “accertare la vigenza
attuale delle singole norme”. In particolare, l’art. 64 («Delega al
Governo per il testo unico») prevede che “Il Governo è delegato ad
adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della
presente legge, sentito il CNF, uno o più decreti legislativi contenenti un
testo unico di riordino delle disposizioni vigenti in materia di professione
forense, attenendosi ai seguenti princìpi e criteri direttivi: a) accertare la
vigenza attuale delle singole norme, indicare quelle abrogate, anche
implicitamente, per incompatibilità con successive disposizioni, e quelle che,
pur non inserite nel testo unico, restano in vigore; allegare al testo unico
l’elenco delle disposizioni, benché non richiamate, che sono comunque abrogate;
b) procedere al coordinamento del testo delle disposizioni vigenti apportando,
nei limiti di tale coordinamento, le modificazioni necessarie per garantire la
coerenza logica e sistematica della disciplina, anche al fine di adeguare e
semplificare il linguaggio normativo”.
Questo argomento, tuttavia, mi sembra
alquanto debole, ricordandosi che le leggi possono ritenersi abrogate anche “per
incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti” (art. 15 delle
preleggi).
Nondimeno, come si è innanzi illustrato,
si ha, perlomeno in apparenza (ma a mio avviso sussiste in concreto), un netto
contrasto tra le seguenti due affermazioni contenute nel medesimo articolo:
- per un verso (comma 4) si sancisce che “Sono
vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o
in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione
litigiosa” (e già sul punto, come si è innanzi illustrato, si
prospettano contrapposte letture);
- per altro verso (comma 5) si afferma che “è
ammessa la pattuizione … a percentuale sul valore dell’affare o su quanto
si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente
patrimoniale, il destinatario della prestazione”.
Orbene le ipotesi sono almeno tre:
- o siamo dinanzi ad un contrasto insanabile (da un
lato si ammette la pattuizione per via percentuale, dall’altro lato la si
nega), sicché per l’applicazione della disposizione in questione si dovrà
attendere l’esercizio da parte del Governo della delega di cui all’art. 64
(«Delega al Governo per il testo unico»), dovendo quest’ultimo in
tale occasione “procedere al coordinamento del testo delle disposizioni
vigenti apportando, nei limiti di tale coordinamento, le modificazioni
necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della disciplina”
(secondo questa prima impostazione dunque la norma non sarebbe
immediatamente operativa);
- oppure la norma reca un contrasto soltanto
apparente e cioè in realtà non nega qualsiasi ipotesi di patto quota lite,
al contrario limitandosi ad imporre l’indicazione del “valore”
assunto in considerazione per la determinazione della percentuale del
compenso;
- o, ancora, il comma 4 va effettivamente
interpretato nel senso che “l’avvocato può esigere il pagamento della
quota lite, ma solo in danaro, senza poter obbligare il cliente a
condividere il bene”[35].
E’ ovvio che, se si interpretasse la
norma nel terzo senso, occorrerebbe concludere per la totale inutilità della
norma.
Se invece la interpretassimo nel secondo
senso dovremmo ritenere che il legislatore (con il beneplacito di chi ci
rappresenta) abbia introdotto una norma che scioccamente complica soltanto la
contrattazione con il cliente, dovendosi costruire la clausola dell’accordo in
forma percentuale formulando un’ipotesi del “su quanto si prevede possa
giovarsene” dell’“affare” l’assistito.
Tutto ciò a meno di ritenere (altra
ulteriore interpretazione) che la norma non includa affatto nella nozione di “affare”
le controversie in materia risarcitoria o restitutoria, con la conseguenza però
di discriminare, del tutto irragionevolmente (con violazione dell’art. 3
Cost.), tra gli avvocati, che si occupano di sinistri, e quelli che affrontano
altre materie (dunque con conferma che il nostro legislatore ha inteso
penalizzare ancora una volta i danneggiati ed i loro avvocati nella promozione
delle controversie risarcitorie). Siffatta lettura, tuttavia, non annovera
riscontri da parte del legislatore stesso (cioè non è confermata in alcun modo
a livello di ratio legis).
Quale che sia l’interpretazione della
norma, è un fatto che ci ritroviamo dinanzi all’ennesimo “pasticcio” del
nostro legislatore, cioè dinanzi a incertezze che un qualsiasi legislatore, che
abbia a cuore i suoi cittadini, dovrebbe sempre scongiurare.
Ed è altresì un fatto il seguente: non
si avvertiva affatto la necessità di un tale sovvertimento delle regole. Mi
piacerebbe proprio sapere quali siano quegli avvocati che, occupandosi di
controversie risarcitorie (e non sono pochi!), avranno a godere del novello
casino legislativo.
Tra l’altro – last but not least –
la restaurazione del divieto di patto quota lite (qualora questa sia
l’interpretazione corretta della norma) dovrà comunque fare i conti con l’orientamento
giurisprudenziale per cui, mitigandosi così la portata del previgente divieto,
“non sussiste il patto di quota lite, vietato dal terzo comma dell’art. 2233
c.c. (nella versione “ratione temporis” applicabile, antecedente alla
sostituzione operata per effetto del D.L.
n. 223 del 2006, art. 2, comma 2 bis, conv., con modif., nella L.
n. 248 del 2006), non solo nel caso di convenzione che preveda
il pagamento al difensore, sia in caso di vittoria che di esito sfavorevole
della causa, di una somma di denaro (anche se in percentuale all'importo,
riconosciuto in giudizio alla parte) ma non in sostituzione, bensì in
aggiunta all’onorario, a titolo di premio (cosiddetto palmario), o di
compenso straordinario per l’importanza e difficoltà della prestazione
professionale (da accertare in concreto - come nella fattispecie - sulla scorta
di idonei riscontri probatori), ma anche quando la pattuizione del compenso al
professionista - ancorché limitato agli acconti versati - sia sostanzialmente -
anche se implicitamente - collegata all’importanza delle prestazioni
professionali od al valore della controversia (presupposti questi, anch’essi, da
verificare in concreto) e non in modo totale o prevalente all’esito della lite”[36].
In pratica, stando a questo
orientamento, il patto quota lite può sopravvivere laddove:
- si aggiunga ad una pattuizione che contempli il
pagamento di un onorario[37];
- trovi giustificazione nell’“importanza” e “difficoltà” della
prestazione professionale.
Anzi, pare proprio evidente l’ottusità
del legislatore (e di chi lo plaude) che continua a redigere norme senza
prestare la dovuta attenzione agli orientamenti giurisprudenziali (generalmente
più ragionevoli).
Ad ogni modo, considerandosi tale
orientamento della Cassazione, il ritorno al “vecchio” sistema non fa altro che
ingenerare nuove (anzi, risalenti) incertezze circa
l’impostazione dei rapporti contrattuali con i clienti, ricordandosi come la
Cassazione abbia sì confermato l’ammissibilità della pattuizione “quota lite”
laddove consistente in un “compenso aggiuntivoper l’esito
favorevole della causa di risarcimento danni”, specificando però che tale
compenso “non deve essere tale da rappresentare una ingiustificata falcidia,
a favore del difensore, dei vantaggi economici derivanti dalla vittoria della
lite (v. Cass. 13 maggio 1976, n. 1701), perché a tanto osta il divieto del
patto di quota lite (secondo la previgente formulazione dell'art. 45 del Codice
Deontologico Forense, applicabile nel caso ratione temporis), che non può
essere dissimulato dalla previsione pattizia di un palmario per l’esito
favorevole della lite (v. Cass. 13 maggio 1976, n. 1701; 19 novembre 1997, n.
11485; S.U. 21 dicembre 1999, n. 919)”[38].
In breve, il giudizio sull’esosità o
meno del patto quota lite “aggiuntivo” è per intero rimesso nelle mani del
Consiglio Nazionale Forense (nel suo ruolo giurisdizionale per quanto attiene i
profili deontologici[39])
e delle corti (che sappiamo non essere particolarmente sensibili nei confronti
della remunerazione degli avvocati).
Chi ci rappresentava nell’iter di
approvazione della “riforma”, se veramente avesse tenuto alla
chiarezza dei rapporti avvocato-cliente ed alla tutela della nostra remunerazione,
avrebbe dovuto insistere non già per l’abrogazione (tra l’altro non
particolarmente cristallina ed invece suscettibile di contrapposte letture) del
patto quota lite, bensì per una disciplina più dettagliata (lo si ribadisce: in
primis con la previsione di soglie massime), tale da produrre certezze
e da permetterci di utilizzare tale strumento contrattuale con tutta la
serenità del caso.
L’articolo in questione al comma 10
stabilisce poi quanto segue: “Oltre al compenso per la prestazione
professionale, all’avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di determinazione
contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale, oltre al rimborso delle
spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente
anticipati nell’interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese
forfetarie, la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6,
unitamente ai criteri di determinazione e documentazione delle spese vive”.
Ottima previsione, senonché vi è da chiedersi perché non sia stato ristabilito
sin da subito il criterio del 12,5 % (o altri veriori parametri), invece che
farci attendere ulteriori mesi (essendo che il Governo ha ormai chiuso i
battenti). Altro motivo, dunque, per non provare alcun entusiasmo per questa
“riforma”, che non solo toglie guadagni, ma ci proroga pure l’ingiustizia
subita con il taglio legislativo alla liquidazione delle spese generali. Quante
lustre dovremo attendere per la riaffermazione della liquidazione delle spese
generali?
Infine deve osservarsi come tra i
“riformatori” della professione forense non vi sia stata alcuna riflessione
circa le soluzioni innovative che, per garantire ai cittadini l’accesso alla
giustizia, si sono venute a sviluppare negli altri sistemi.
Si pensi a quest’ultimo proposito alle
polizze assicurative di assistenza legale “after-the-event” (ATE), ormai
ampiamente diffuse oltremanica, promosse dalla stessa Law Society.
Insomma, si continua a ragionare secondo
vecchi schemi, senza prendersi spunto dalle esperienze straniere.
9) Art. 21 («Esercizio
professionale effettivo, continuativo, abituale e prevalente e revisione degli
albi, degli elenchi e dei registri; obbligo di iscrizione alla previdenza
forense»)
In questo articolo si ribadisce tra
l’altro che “L’iscrizione agli Albi comporta la contestuale iscrizione alla
Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense” e che “Non è ammessa
l’iscrizione ad alcuna altra forma di previdenza se non su base volontaria e
non alternativa alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense”.
Ora, giusto è sicuramente che ogni avvocato
debba contribuire alla Cassa innanzitutto per la quota corrispondente ai fini,
per così dire, sociali della stessa (penso soprattutto alla maternità, che
tuttavia si risolve in un magro sostegno per le colleghe più giovani[40]).
Tuttavia, trovo inaccettabile dover
essere spremuto all’inverosimile da tale Cassa, con la prospettiva di
conseguire soltanto a tardissima età un supporto alquanto modesto, incrociando
le dita di non defungere prima (e con gli stess di questi tempi non è una
prospettiva inverosimile). L’incidenza dei contributi previdenziali dovrebbe
cioè teneredebitamente conto dei livelli di tassazione del reddito
ormai raggiunti (aggravati dai crescenti ed ingenti costi di gestione della
nostra attività e, più in generale, dei costi della vita) e permetterci di
poter stipulare pensioni integrative, tali da consentirci di godere di un
minimo di pensione ad un’età ragionevole. Ed invece ci troviamo a non poter
mettere da parte alcunché e con i contributi previdenziali che aumentano
nonostante tutto e malgrado si allunghi l’età per la pensione di vecchiaia[41]:
in pratica stiamo versando alla Cassa smisurate somme a fondo perduto, senza
possibilità di risparmi per pensioni integrative. E ciò non va affatto bene ed
è grave che non lo si voglia comprendere. Senza contare la frustrazione al
pensiero di quanti colleghi manteniamo o manterremo, i quali hanno affrontato o
continueranno a svolgere la professione facendo del nero una costante[42].
Potrà obiettarsi che gli attuali livelli
di contribuzione previdenziale sono dettati dalla necessità di mantenere gli
attuali pensionati e quelli in procinto di esserlo e che, per limiti di
reddito, non hanno fornito particolari contribuzioni. Benissimo. Giusto. Ma
francamente ho anch’io diritto ad una vita un minimo dignitosa e ad un po’ di
serenità per il mio futuro da pensionato (se ci arriverò). Sinceramente, quale
contribuente impeccabile, ne ho le scatole piene di dovermi sobbarcare per
intero le vecchie generazioni (quelle dell’epoca aurea della nostra
professione, notoriamente contraddistinta da guadagni inesistenti per il fisco)
oppure colleghi che avrebbero fatto meglio a fare un altro mestiere, trovandomi
pure impossibilitato a sviluppare al massimo le mie possibilità di guadagno e
con nuovi incombenti da affrontare.
Se la Cassa non provvederà a rimediare a
tale situazione di grave ingiustizia che noi più o meno giovani
avvocati/contribuenti seri ci troviamo a vivere quotidianamente, occorrerà
allora cominciare a riflettere su tutte le iniziative del caso, muovendosi dal
seguente assunto: a ben osservare i contributi previdenziali sono finalizzati a
conseguire in un futuro una contro-prestazione (contrattuale); laddove non sia
ravvisabile alcuna ragionevole proporzione tra contributi e la
contro-prestazione attesa (soprattutto se ci faranno andare in pensione a
settanta anni con una vita media di 79,1, stima da rivedersi al ribasso qualora
si soffra di ipertensione o altre patologie consimili, oppure si sia tabagisti),
evidentemente si dovrà agire giudizialmente per la riduzione dei contributi.
Perché dovrei pagare per una vita professionale intera per poi ricevere una
misera pensione per qualche manciata di anni?
Lo ribadisco: non metto in discussione
il dovere di contribuire alla Cassa, ma che questa, prendendo atto della realtà
economica (tassazione inclusa) in cui viviamo, dovrebbe permettermi di
accantonare una qualche somma per pensioni integrative, concedermi un margine
minimo per andare in pensione quando ne avrò voglia. Ne sono convinto: ormai
siamo dinanzi alla violazione di diritti costituzionali fondamentali, essendo
di fatto spogliati delle risorse che ci guadagniamo a fatica e della
possibilità di viverci una vecchiaia decente.
10) Art. 22 («Albo speciale
per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori»)
Per gli avvocati sotto i quaranta anni
si prospettano nuovi ostacoli per patrocinare le cause in Cassazione.
Prima della riforma, a parte l’opzione
costituita dall’esame disciplinato dalla legge 28 maggio 1936, n. 1003, e dal
regio decreto 9 luglio 1936, n. 1482 (via molto di rado percorsa), si accedeva
alle giurisdizioni superiori decorsi 12 anni di attività (già un’eternità),senza alcuna
necessità di dare esami e frequentare corsi.
Ora invece, decorsi otto anni di
attività, per accedere alle giurisdizioni superiori è imprescindibile “lodevolmente
e proficuamente” avere “frequentato la Scuola superiore dell’avvocatura,
istituita e disciplinata con regolamento dal CNF” (alla quale si accederà tramite
una preselezione) e, al termine del corso, avere passato un esame: “Il
regolamento può prevedere specifici criteri e modalità di selezione per
l’accesso e per la verifica finale di idoneità. La verifica finale di idoneità
è eseguita da una commissione d’esame designata dal CNF e composta da suoi
membri, avvocati, professori universitari e magistrati addetti alla Corte di
cassazione”.
Insomma, per chi vorrà dilettarsi in
Cassazione non sarà più sufficiente rispettare gli obblighi della formazione
continua e farsi le ossa per un certo qual numero di anni, ma occorrerà altresì
cimentarsi con ulteriori corsi ed esami (magari su materie del tutto
inconferenti con la “specializzazione” acquisita): chi sarà soggetto alla nuova
disciplina dovrà quindi reperire il tempo necessario per queste nuove
incombenze, rimettersi a studiare e fronteggiare commissioni di esame, come se
già non fosse quotidianamente una lotta contro il tempo per portare a casa un
qualche guadagno.
Ma dove lo trova il tempo per studiare e
dare esami (cioè per rivestire per l’ennesima volta i panni dello studente) un
avvocato che sia ormai nel pieno della sua attività e magari abbia anche una
famiglia e/o dei collaboratori da mantenere?
E perché mai dovremmo trovarci, ormai
quarantenni, nuovamente dinanzi a commissioni che ci interrogheranno con codici
alla mano e con docenti universitari magari frustrati? Tutto ciò per la
redazione di ricorsi che non sono molto diversi dagli appelli (ciò soprattutto
dopo l’ultima riforma) ed un’udienza in occasione della quale solitamente ci
vengono concessi cinque minuti scarsi per richiamarci a quanto già esposto?
Tutto ciò è davvero troppo, la misura è
colma. Altro che liberalizzazione delle professioni, altro che attenzione per
le nuove generazioni: se continua così arriveremo ad avere tutte le carte in
regola soltanto a fine carriera, spremuti come limoni, stressati ed a contare
gli spiccioli.
Inizio proprio ad essere convinto che il
problema delle nostre generazioni sia quello di essere rappresentati da vecchi,
che intendono impedirci di vedere la luce sino alla loro definitiva ed a questo
punto auspicata uscita di scena.
Si salvano dalle nuove forche caudine
soltanto “coloro che maturino i requisiti secondo la previgente normativa
entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge”.
Perché tre anni? Perché non una norma irretroattiva come sarebbe giusto in un
Paese “normale”?
Prendiamo comunque atto che per accedere
alla Cassazione ci troveremo ad affrontare, oltre gli incombenti imposti dalla
formazione continua, ulteriori costi e dispendi di tempo, come se ne avessimo a
disposizione a dismisura.
Tra l’altro il tutto è assurdo: per
patrocinare i nostri clienti dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea oppure avanti la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non si deve
frequentare alcun corso o passare attraverso alcun esame; per finire dinanzi
alla Cassazione occorre invece sputare l’anima.
Si auspica che il CNF, nel redigere il
regolamento, avrà almeno il buon cuore di distinguere tra civilisti, penalisti
e amministrativisti, magari focalizzando l’esame esclusivamente sulle questioni
processuali. Per esempio, che senso avrebbe per un civilista dover riprendere
in mano il diritto penale (sostanziale e processuale) per accedere alle sezioni
civili della Cassazione?
11) TITOLO IV - ACCESSO
ALLA PROFESSIONE FORENSE
Veniamo infine alle “nuove” modalità
dell’accesso alla professione forense[43].
Una premessa si impone al riguardo:
- indubbiamente si affacciano alla professione
giovani che per lo più sono ormai lungi dall’essere preparati per
affrontare il percorso professionale; la colpa è in primis del
sistema scolastico, sin dai suoi albori: in questi ultimi decenni le
istituzioni lo hanno distrutto, fatto a pezzi; la colpa è pure delle
università che peraltro da ultimo annoverano molti docenti privi di
particolari qualità (anche inabili a stimolare un minimo di attenzione in
classe), piazzati in cattedra dai loro protettori non già per meriti, ma
per parentele, per conoscenze, per opportunismi e per altre variabili;
- ed è pure indiscutibile che, in assenza di altri
particolari sbocchi, i laureati in legge, che si trovano a bussare la
porta della professione forense, siano sempre di più (purtroppo non molti
sono quelli mossi da specifiche vocazioni).
Il problema della selezione è allora
sicuramente serio ed è opportuno che l’Avvocatura se ne faccia carico, essendo
vano attendersi che da un giorno all’altro l’università diventi selettiva come
lo era nel passato.
Sennonché con questa
“riforma” non si innova alcunché, ma si inasprisce soltanto il vecchio modello
a totale detrimento di:
- svariati valenti giovani che, con significativi
sacrifici, seriamente si dedicano (rectiusvorrebbero dedicarsi)
alla pratica, salvo poi trovarsi dinanzi all’ingiusta tagliola che
discende da esami scritti altamente aleatori (e che non premiano il merito
e la pratica effettuata) oppure con tutto da rifare a causa di commissioni
che all’esame orale, magari per stare nelle statistiche, se ne vengono
fuori con domande assurde o prive di qualsivoglia aderenza con la pratica
forense;
- per quegli studi legali che investono sulla
formazione qualificata dei praticanti (dunque portandoli ad essere delle
preziose risorse) ed ogni anno si trovano con gli stessi paralizzati e
traumatizzati per mesi dagli esami (tra scritti ed orali).
Non si è in alcun modo compreso - né da
parte del legislatore e né di coloro che ci hanno rappresentato - che la prima
selezione dovrebbe giocarsi sulle reali possibilità dell’avvocatura di
garantire un qualche futuro economico ai giovani. La professione forense
dovrebbe permettere l’accesso di nuovi colleghi nella misura in cui può
sostenerli economicamente, cioè dar loro da sopravvivere. Continuandosi a
tollerare che i giovani possano essere costretti a lavorare per tozzi di pane,
non si fa altro che preservare un accesso alla professione economicamente
insostenibile (anche ai fini poi previdenziali). La soluzione, dunque, sarebbe
molto semplice: imporre agli avvocati dei trattamenti economici minimi da
garantirsi ai praticanti e poi ai giovani avvocati (per questi ultimi per
almeno per un certo numero di anni dopo l’esame, ciò nell’ipotesi di impiego
“full time” da parte dello studio, ferma restando la possibilità di combinazioni
tra fisso e percentuali sulle pratiche); se l’aspirante avvocato riesce a
conquistarsi il “contratto”, ecco che potrà proseguire nel suo percorso,
altrimenti sarà bene che si indirizzi altrove, senza trovarsi ad illudersi ed a
investire in una professione sempre più povera. Il fatto è che tutta una
pletora di avvocati, sfruttando i giovani e così svolgendo peraltro concorrenza
sleale (rispetto a quegli studi che invece li pagano), avviano all’avvocatura
una serie di aspiranti legali che la professione semplicemente non può
permettersi.
La soluzione invero era ed è a portata
di mano:
- restrizione dell’accesso a coloro che effettivamente svolgano
(tutto!) il tirocinio in uno studio legale, contrattualmente garantiti,
dopo un periodo il più possibile minimo di prova (al massimo sei mesi), da
un trattamento economico adeguato ed uniforme per tutto il territorio
nazionale;
- obbligo di frequentazione di corsi di
approfondimento (sostenuti economicamente dal CNF e dai consigli
dell’ordine);
- esame orale centrato sulla conoscenza delle norme
deontologiche e sull’esperienza maturata nel corso della pratica, senza
trasformare l’accesso alla professione in un disumano concentrato di esami
universitari.
La “riforma” si muove invece in una
direzione diametralmente opposta, ancora una volta permettendosi lo
sfruttamento dei giovani e creandosi tutti i presupposti per nuovi avvocati
destinati ad una vita di stenti. Non solo: si opta con piena consapevolezza per
sottoporre i praticanti ad un esame palesemente vessatorio, inutilmente
distruttivo, ai limiti della disumanità, tra l’altro riducendosi il
praticantato vero (quello svolto presso gli studi legali) ad un mero orpello
(da circoscriversi il più possibile perché altrimenti mancherebbe il tempo per
studiare per il terribile esame).
11.1) Art. 41 («Contenuti
e modalità di svolgimento del tirocinio»)
Correttamente si conferma che “Il
tirocinio professionale consiste nell’addestramento, a contenuto teorico e
pratico, del praticante avvocato finalizzato a fargli conseguire le capacità
necessarie per l’esercizio della professione di avvocato e per la gestione di
uno studio legale nonché a fargli apprendere e rispettare i princìpi etici e le
regole deontologiche”.
Il tirocinio, qualora correttamente
svolto, è di fondamentale importanza: si diviene avvocati con la pratica, non
già solo con le nozioni. Peraltro, si prova una certa qual nostalgia per
l’epoca in cui, prima di potersi fregiare del titolo di avvocato, vi era la
qualifica intermedia (post esame) del “procuratore legale”. Davvero occorre
molto tempo affinché al titolo di avvocato corrisponda una certa qual sostanza
tale da giustificare l’impiego del titolo verso la clientela.
Sennonché la norma va chiaramente nella
direzione opposta:
- si abbassa la durata del tirocinio a diciotto
mesi;
- si prevedono forme alternative di tirocinio fuori
dagli studi legali, potendo divenire avvocati soggetti che hanno
frequentato uno studio per soli sei mesi (“In ogni caso il tirocinio
deve essere svolto per almeno sei mesi presso un avvocato iscritto all’ordine
o presso l’Avvocatura dello Stato”);
- tra queste forme alternative si ha anche “il
diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni
legali, di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997,
n. 398, e successive modificazioni”, frequentazione valutata ai fini
del compimento del tirocinio per l’accesso alla professione di avvocato
per il periodo di un anno (!); verrebbe quasi da osservare come si voglia
così prorogare per un ulteriore anno lo scadente modello dell’attuale
insegnamento universitario.
Sia chiaro: per questa via si finirà per
consegnare il titolo di avvocato a soggetti che non hanno la più pallida idea
di come funzioni uno studio legale, dei rischi, dei costi e delle prospettive
reali di questo mestiere, di come si gestisca il rapporto (sempre più
complesso) con i clienti. Inoltre si conduce così una massa di giovani laureati
in giurisprudenza ad investire su una professione che manco conoscono
relativamente a tutti i suoi lati positivi e, soprattutto, negativi.
La “riforma” conferma poi la precedente
legittimità dello sfruttamento economico dei giovani:
- “Il tirocinio professionale non determina di
diritto l’instaurazione di rapporto di lavoro subordinato anche
occasionale”: l’ennesimo privilegio corporativo è quindi ribadito a
chiare lettere; persiste pertanto l’anomalia, tutta italiana, di una
classe di autentici lavoratori (peraltro qualificati) – i praticanti – ai
quali può negarsi legittimamente un qualsiasi trattamento economico,
assicurativo e pensionistico (la CPA disconosce tra l’altro i praticanti
senza patrocinio), tralasciandosi le considerazioni che ben si potrebbero
svolgere, in termini generali, sul piano economico e sociale (in sintesi
si ha un’ampia categoria di persone che cominciano a contribuire al welfare intorno
ai trenta anni, se non oltre, e che gravano sulle famiglie e dunque sulla
capacità di risparmio/acquisto delle stesse); a questi lavoratori non è
garantito il rispetto dei ben noti diritti costituzionali di cui agli
artt. 36, 37 e 38 Cost.; orbene, è piuttosto singolare che la classe
forense, distintasi nello sviluppo della tutela dei lavoratori sotto tutti
i profili e che declama ai quattro venti la nobiltà del suo ruolo e invoca
concetti quali dignità degli individui e promozione dei diritti, al
contempo nulla faccia in concreto per regolarizzare il trattamento
economico (e non solo) dei praticanti e per costruire un sistema di
criteri minimi contrattuali per la gestione dei rapporti di quest’ultimi
con gli studi legali, nonostante modelli da prendere a riferimento ci
sarebbero pure (ad esempio in Inghilterra esistono contratti-tipo e
retribuzioni minime per gli aspiranti legali[44]);
- “Negli studi legali privati, al praticante
avvocato è sempre dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello
studio presso il quale svolge il tirocinio”: grave è che si debba
affermare un principio di questo genere (ma l’Avvocatura da quali personaggi
è composta????);
- “decorso il primo semestre, possono essere
riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o
un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati
all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni
e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello
studio da parte del praticante avvocato”; è qui lampante la totale
malafede del legislatore e dei “fan” della cosiddetta “riforma”: “possono”
(!!!), non già “devono”, essere riconosciute delle indennità, il che
significa che gli “avvocati-sfruttatori-di giovani praticanti” potranno
proseguire ad arricchirsi sul lavoro altrui, così avviando alla
professione un numero di aspiranti colleghi che il mercato forense non può
in realtà sostenere, e pure falsando la concorrenza tra gli studi legali;
insomma, si conferma come in Italia siano sempre avvantaggiati i
comportamenti disonesti e moralmente inaccettabili[45].
11.2) Art. 43 («Corsi
di formazione per l’accesso alla professione di avvocato»)
“Il tirocinio, oltre che nella
pratica svolta presso uno studio professionale, consiste altresì nella
frequenza obbligatoria e con profitto, per un periodo non inferiore a diciotto
mesi, di corsi di formazione di indirizzo professionale tenuti da ordini e
associazioni forensi, nonché dagli altri soggetti previsti dalla legge”.
La previsione di tale obbligo formativo
è sicuramente condivisibile, sennonché non parimenti apprezzabili sono i
seguenti criteri direttivi per il regolamento redigendo dal Ministero della
Giustizia:
- “la durata minima dei corsi di formazione”
prevede “un carico didattico non inferiore acentosessanta ore per
l’intero periodo”, con tanto di “verifiche intermedie e finale del
profitto” (per affrontare le quali i praticanti dovranno pur
studiare): certamente chi non pagherà un euro ai praticanti (magari
impiegandoli come segretari), se ne metterà in studio un numero cospicuo
(tanto possono lavorare gratuitamente) e sarà indifferente alle assenze di
questo o quel praticante; chi invece si comporterà correttamente (dunque
limitando il numero di collaboratori a quelli che puòeconomicamente permettersi),
risulterà anche sotto questo profilo svantaggiato; ciò peraltro
disincentiva gli avvocati a trattare in modo economicamente adeguato i
propri collaboratori (se sono spesso via dallo studio, diviene un po’
difficile giustificarne il pagamento, no?); non solo: che senso hanno
tutte queste ore di lezione extra-studio per tutti quegli avvocati che
investono seriamente nella formazione dei loro praticanti? Perché mai un
collaboratore al quale stiamo insegnando un mestiere dovrebbe esserci
sottratto per ricevere delle istruzioni sulla redazione degli atti che
magari neppure condividiamo e che possono confonderlo? Dove va a finire la
continuità della didattica di cui necessitiamo per fare crescere i nostri
praticanti? Avrei compreso se si fossero centrati tali corsi sulla
deontologia forense, oppure per la preparazione dell’esame di Stato
(esercitazioni per la redazione degli scritti); non comprendo invece il
perché dobbiamo inviare ai corsi i nostri collaboratori per apprendere
delle nozioni che dovremmo impartire noi quali domini (si noti bene: i
predetti corsi avranno ad oggetto “l’insegnamento del linguaggio
giuridico, la redazione degli atti giudiziari, la tecnica impugnatoria dei
provvedimenti giurisdizionali e degli atti amministrativi, la tecnica di
redazione del parere stragiudiziale e la tecnica di ricerca”; … forse
che non siamo neppure più in grado di insegnare il “linguaggio
giuridico”????);
- “le verifiche intermedie e finale del profitto
… sono affidate ad una commissione composta da avvocati, magistrati e
docenti universitari … Ai componenti della commissione non sono
riconosciuti compensi, indennità o gettoni di presenza”: la norma ci
consegna un futuro in cui avremo collaboratori prima vessati da questi
esami e poi dal mostruoso esame finale, l’ultima preoccupazione dei quali
sarà dedicare tutto il tempo e tutta la concentrazione del caso per le
attività delle studio legale; peraltro, non oso immaginare come saranno
ben disposti gli avvocati, magistrati e docenti universitari costretti ad
attendere gratuitamente alle verifiche in questione; inoltre, non si
comprende bene quale incidenza avranno i risultati di tali verifiche:
quali saranno le conseguenze nei casi di risultati negativi?
La norma, infine, tace del tutto sui
costi di tali corsi di formazione.
11.3) Art. 46 («Esame
di Stato»)
Esattamente come prima “L’esame di
Stato si articola in tre prove scritte ed in una prova orale”, sennonché:
- “Le prove scritte si svolgono con il solo
ausilio dei testi di legge senza commenti e citazioni giurisprudenziali”
(un’autentica vessazione, peraltro del tutto anacronistica in un contesto
giuridico quale quello attuale in cui su ogni norma si hanno plurimi
orientamenti giurisprudenziali impossibili da memorizzare anche avendo a
disposizioni più vite; sfido qualsiasi avvocato, che farà da esaminatore,
a dimostrarmi la conoscenza degli orientamenti della giurisprudenza su
tutte le materie civili e penali oggetto dell’esame);
- la prova orale annovera nella sua nuova versione
ben cinque materie obbligatorie (“ordinamento e deontologia forensi,
diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto
processuale penale”), oltre altre due materie a scelta (“Per la
prova orale, ogni componente della commissione dispone di dieci punti di
merito per ciascuna delle materie di esame”; inoltre, è necessaria la
sufficienza in ogni materia: “Sono giudicati idonei i candidati che
ottengono un punteggio non inferiore a trenta punti per ciascuna materia”);
quanti mesi occorreranno per presentarsi all’esame orale con una
preparazione accettabile? Che cosa s’intende premiare in dieci minuti per
materia: la capacità memonica (oggi ampiamente coadiuvata nella pratica di
tutti i giorni da ogni sorta di banca dati) o la capacità di ragionamento
e la capacità di destreggiarsi nella praticaccia di tutti i giorni?
Evidentemente sarà premiato chi sarà in grado di memorizzare una quantità
immensa di dati.
Vorrei domandare agli avvocati che
provano entusiasmo per una simile tortura se sarebbero in grado di sostenere un
esame siffatto.
Ora, se volevano rendere l’esame
impossibile ed inaccessibile ai praticanti seriamente e quotidianamente
impegnati a lavorare negli studi legali, ci sono riusciti perfettamente: un
capolavoro di vessazione e angheria nei confronti dei futuri praticanti, che,
per prepararsi all’esame ed avere una qualche chance di passarlo, al massimo
dedicheranno sei mesi alla pratica vera, cioè quel periodo di tempo di permanenza
presso uno studio legale ritenuto dalla novella “riforma” imprescindibile per
conseguire il certificato di compiuta pratica.
Gli effetti di questo perverso sistema
sono palesi ed ampiamente negativi per tutti, non solo per i futuri praticanti:
- si chiude la porta in faccia alla maggior parte
dei giovani aspiranti avvocati (fatta ovviamente eccezione per quelli che,
figli d’arte o consimili, potranno permettersi una pratica fittizia e di
starsene a casa a studiare);
- si disincentiva noi avvocati a metterci in casa
praticanti inesorabilmente destinati per un lungo periodo ad essere
vessati da esamini ed esamoni, stressati, indisponibili per la maggior
parte del tempo, magari obbligati a ripetere più volte le prove prima di
riuscire ad acquisire il titolo.
Tra l’altro si staglia il seguente bel risultato: noi avvocati – già privati dalla
“riforma” di prospettive di guadagno e senza particolari strumenti per
concorrere sul mercato – tra due anni, allorquando si passerà al nuovo sistema,
ci troveremo pure privati di fatto di apprendisti, i quali magari andranno a
sfruttare la loro laurea proprio dai nostri concorrenti[46].
Un dato è certo: ancor più di prima
l’esame indubbiamente non premierà i praticanti “effettivi” e che avranno
“investito” il loro tempo in attività scarsamente retribuite; i praticanti
“veri” saranno posti sullo stesso piano degli altri e risulteranno enormemente
svantaggiati per il minor tempo a disposizione per la preparazione.
Davvero possiamo seriamente ritenere che
questa sia la via giusta per formare dei giovani avvocati in grado di
affrontare, una volta acquisito il titolo, i clienti ed i problemi reali?
Qui in Italia siamo proprio bravi a
farci del male da soli: mentre nel resto del mondo si favorisce l’ingresso dei
giovani nelle realtà lavorative (ivi comprese quelle professionali) e si cerca
di svecchiare i contesti lavorativi, da noi si procede nel senso diametralmente
opposto.
Ed allora, in definitiva, quale
“rilancio” della professione forense se gli unici a non essere colpiti in
qualche modo dalla “riforma” sono gli avvocati ormai avviati verso il tramonto?
(Altalex, 19 gennaio 2013. Articolo di Marco Bona. Vedi anche l'eBook "Riforma
Forense. Come cambia la professione di avvocato" di Morena
Ragone e Fabrizio Sigillò)
_______________
[2] Deve evidenziarsi come la seduta dell’Assemblea
del Senato del 21 dicembre 2012 si sia contraddistinta per significative
anomalie, a partire da quelle relative alla verifica del numero legale dei
Senatori presenti e votanti, annoverandosi altresì una deplorevole rissa in
apertura della votazione del provvedimento qui in disamina [“PRESIDENTE:
L’ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge n.
601-711-1171-1198-B, già approvato dal Senato e modificato dalla Camera dei
deputati. Ricordo che, ai sensi dell’articolo 104 del Regolamento, oggetto
della discussione e delle deliberazioni saranno soltanto le modificazioni
apportate dalla Camera dei deputati, salvo la votazione finale. (Vivaci
commenti).Colleghi, cosa succede? Senatore Bricolo! (Commenti dal
Gruppo LNP). Basta! Evitiamo di chiudere in rissa questa seduta. Mi
appello al vostro senso di responsabilità. (Il senatore Della Seta
rivolge ripetutamente epiteti ingiuriosi in direzione del Gruppo LNP. I
senatori Ferrante e Di Giovan Paolo protestano all’indirizzo del Gruppo LNP). DI
GIOVAN PAOLO (PD). Presidente, gli ha messo le mani addosso! PRESIDENTE. Adesso
verificheremo. (Il senatore Torri scende dai banchi del Gruppo LNP e si dirige
verso i banchi del Gruppo PD, ma viene bloccato dagli assistenti parlamentari).
Senatore Torri, la richiamo all’ordine. Senatore Torri, la richiamo all’ordine
per la seconda volta! Non si faccia espellere. Al terzo richiamo la espello
dall’Aula. Mi segnalano che c’è stato qualche gesto inconsulto anche dai banchi
del PD. Colleghi, basta, cerchiamo di concludere i lavori in maniera corretta”].
Va inoltre debitamente ricordato, a futura memoria (anche se quella degli
elettori italiani è molto corta), come il provvedimento sia stato approvato in
via bipartisan nonostante la “consapevolezza” di varie pecche
e con la solita (vacua e ridicola) promessa di procedere in futuro a migliorie
(come se fosse accettabile fare le leggi procedendosi a tentativi, correggendo
nel corso degli anni – magari di decenni – storture ed ingiustizie). Così il
Senatore Casson (PD): “Signor Presidente, molto rapidamente, annuncio il
voto favorevole del Partito Democratico.[…] Indubbiamente, ci sono
alcuni punti che ci lasciano perplessi. Essi riguardano i giovani avvocati, i
praticanti, il tirocinio (ed in particolare i compensi che dovrebbero essere
loro dati) e la formazione. […]Detto questo, riteniamo che,
piuttosto che concludere questa legislatura con un altro buco nell’acqua come
nelle precedenti tre legislature, che non sarebbe stato opportuno, questo
provvedimento segni l’inizio di una riforma nuova in materia di ordinamento
forense. Avremo certamente tempo per intervenire e apportare modifiche
indispensabili per andare incontro alle richieste dei giovani avvocati. Concludo
quindi, dichiarando che il Partito Democratico voterà a favore del disegno di
legge nel suo complesso”. Così il Senatore Benedetto Valentini (PDL): “… mai
una legge è stata così approfondita [n.d.r.: sic!] e, se la
votazione finale è un po’ affrettata [n.d.r.: sic!], ciò non toglie
che il merito sia stato approfondito come mai io ricordi sia avvenuto per altre
leggi [n.d.r.: sic!]. Quindi, esprimo senz’altro un convinto voto
favorevole a nome del Gruppo del Popolo della Libertà”. Non sono mancati
senatori dissenzienti dai loro rispettivi gruppi: “È evidente che siamo di
fronte al regalo finale fatto agli avvocati che siedono in quest'Aula, a coloro
che vi hanno chiesto questa legge: una legge corporativa, una controriforma che
decisamente ricalca quella del periodo dei fasci e delle corporazioni in cui
era nata. Qui, stasera, con questo voto riuniamo (Il microfono si
disattiva automaticamente)” (!) (Poretti, PD); “Signor Presidente, finisce
nel peggiore dei modi possibili questa XVI legislatura e finisce - lo ripeto
ancora una volta - con una legge che presenta ampi margini di
incostituzionalità. […]” (Perduca, PD); “Signor Presidente, in
dissenso dal mio Gruppo voterò contro questo disegno di legge per il merito,
per le cose che abbiamo detto sui giovani avvocati, giacché mi sembra un
evidente regalo alle lobby e un intervento contro i giovani. Prendo atto che
l’opposizione dura e pura di quelli che hanno votato sempre contro tutti i
provvedimenti, come il Gruppo dell’Italia dei Valori, questa volta viene meno:
costoro votano a favore nel merito del provvedimento e contro i giovani. Prendo
atto che la Lega, che ha votato in senso contrario in tutta quest’ultima fase della
legislatura, vota a favore del provvedimento in esame. Quest’ultima giornata
farà sì che non si rimpiangerà questa legislatura che ha dato prova di sé nel
peggiore dei modi possibili, rifiutando di affrontare il provvedimento che
avrebbe dovuto alleviare un poco il dramma delle carceri e facendo invece
questo regalo alle lobby. Termino il mio intervento facendo una richiesta a
lei, signor Presidente: siccome nelle votazioni che hanno avuto luogo a
ripetizione credo che il modo di votare sia stato un po’ allegro, chiedo a lei
e ai senatori Segretari d’Aula, in occasione della votazione finale, di
prenderci il tempo necessario, di levare le schede cui non corrispondono
senatori presenti, non stare al telefono, in modo tale che almeno nel voto
finale si abbia contezza del fatto che questo Senato è davvero in numero legale
per approvare questo scempio” (Ferrante, PD); “Signor Presidente, voterò
in dissenso dal mio Gruppo e contro il disegno di legge in esame. Credo che il
combinato disposto tra la caduta del provvedimento cosiddetto svuota carceri e
l'approvazione di questa legge di casta (perché questa è una legge fatta da una
casta per una casta) segni nel modo più inglorioso quest’ultima giornata di
legislatura. Segnalo l’entusiastica adesione a questo disegno di legge dei due
principali Gruppi di opposizione, l’Italia dei Valori e la Lega, che in questa
occasione evidentemente hanno messo da parte tutte le parole che spendono ogni
giorno contro la politica delle corporazioni, contro la politica dei privilegi.
Credo che davvero si stia scrivendo una pagina poco felice dell’esperienza
parlamentare. Io voto contro” (Della Seta, PD).
[4] Cfr. il comunicato stampa del 21 dicembre 2012,
«Avvocatura, l’OUA elegge i nuovi vertici e saluta con soddisfazione
l’approvazione della nuova legge forense».
[5] N.B.: a questa “riforma” si è addivenuti dietro
la pressione esercitata dal C.N.F. insieme alla neocostituita Unione
Interregionale degli Ordini forensi dell’Italia Centro-Adriatico, a 12 tra le
Unioni territoriali ed a 144 Ordini forensi, che nel novembre 2012
sollecitavano il varo della legge senza ulteriori rinvii e modifiche.
[6] Si è riportato che l’Avvocatura sarebbe stata
“compatta” nel chiedere una approvazione senza ritardi e senza modifiche del
testo di legge e, quindi, nell’aderire alla posizione del CNF a difesa della
legge professionale. Precisiamo allora: le 12 unioni e gli ordini (144 tra i
firmatari dell’adesione alla politica del C.N.F.) sono stati compatti; non mi
risulta invece che siano stati fatti sondaggi tra gli iscritti (obbligatoriamente iscritti)
circa il loro gradimento della “riforma” a venire. Mi sa che ormai si sia
dinanzi ad un’autentica dissociazione tra avvocati e loro organismi
“rappresentativi”, pari a quella che intercorre tra cittadini e partiti.
[8] La disposizione in commento, introdotta con un
emendamento alla Camera dei Deputati, è diversa dalla previsione contenuta nel
precedente testo (Ddl 23 novembre 2010, n. 1198-A) approvato dal Senato in
prima lettura, che riservava agli avvocati in via generale l’intero settore
stragiudiziale, indipendentemente dalla connessione con l’attività
giurisdizionale, dalla continuità, sistematicità ed organizzazione.
[9] Cfr. innanzitutto Corte cost., 21 luglio 1995,
n. 345, in Giust. Civ., 1995, I, 2893, in cui la Consulta ha
escluso “una interpretazione delle sfere di competenza professionale in
chiave di generale esclusività monopolistica (cfr. ad esempio le zone di
attività mista tra avvocati e dottori commercialisti nel settore tributario
anche contenzioso; degli ingegneri e architetti nel settore di determinate
progettazioni; degli ingegneri o dei geologi in alcuni settori della geologia
applicata e della tutela dell'ambiente; degli ingegneri e dottori in scienze
forestali nell’ambito di talune sistemazioni montane)”, altresì affermando
che l’attribuzione di esclusive deve rispondere alle esigenze della società nel
suo complesso e non già dei singoli ordini (“Concorrenza parziale e
interdisciplinarità … appaiono sempre più necessarie in una società, quale
quella attuale, i cui interessi si connotano in ragione di una accresciuta e
sempre maggiore complessità”: alla tutela di queste – “e non certo a
quella corporativa di ordini o collegi professionali, o di posizioni di
esponenti degli stessi ordini” – “è, in via di principio, preordinato e
subordinato l’accertamento e il riconoscimento nel sistema degli ordinamenti di
categoria della professionalità specifica di cui all’art. 33, quinto comma,
della Costituzione”). Anche la Cassazione è sempre stata orientata verso
interpretazioni restrittive di eventuali riserve di legge: cfr., per esempio,
Cass. civ., Sez. II, 30 maggio 2006, n. 12840, inCED Cassazione, 2006,
per cui “La prestazione di opere intellettuali nell’ambito dell’assistenza
legale è riservata agli iscritti negli albi forensi solo nei limiti della
rappresentanza, assistenza e difesa delle parti in giudizio e, comunque, di
diretta collaborazione con il giudice nell’ambito del processo; al di fuori di
tali limiti, l’attività di assistenza e consulenza legale non può considerarsi
riservata agli iscritti negli albi professionali e conseguentemente non rientra
nella previsione dell’art. 2231 cod. civ. e dà diritto a compenso a favore di
colui che la esercita” (in questa controversia la Cassazione ha ritenuto
incensurabile la sentenza di merito che aveva riconosciuto il diritto al
compenso per l’attività stragiudiziale svolta dal segretario di una
organizzazione sindacale in favore di un lavoratore nei confronti del datore di
lavoro, genericamente qualificata come di assistenza sindacale). Deve poi
ricordarsi come l’Autorità garante della concorrenza e del mercato nella
segnalazione del 18 settembre 2009, inviata al Parlamento, abbia rimarcato come
l’ampliamento del novero delle attività riservate agli avvocati sia
suscettibile di determinare restrizioni alla concorrenza, notoriamente
contrarie all’ordinamento dell’Unione Europea che pone esplicitamente come
regola la libertà di concorrenza e come eccezione l’attribuzione legale di
esclusive. Critiche nei confronti della riserva d’attività stragiudiziale sono
state anche l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (segnalazione del 20
novembre 2009) e l’Autorità per l’energia elettrica e il gas (segnalazione del
2 dicembre 2010). E non può qui non ricordarsi la posizione contraria della
Commissione dell’Unione Europea (Relazione Monti del 9 Febbraio 2004).
[11] Sia sufficiente ricordare come già negli anni
sessanta la Suprema corte (Cass. pen., Sez. III, 11 marzo 1964) avesse
riconosciuto la sicura legittimità delle agenzie di pratiche infortunistiche.
[12] Non mi riferisco unicamente agli studi di grandi
dimensioni. Penso altresì a studi legali più modesti, ma che hanno investito in
professionalità, organizzazione e specializzazione.
[14] La Cassazione si è spesso indirizzata verso
interpretazioni restrittive di eventuali riserve di legge: cfr., per esempio,
Cass. civ., Sez. II, 30 maggio 2006, n. 12840, cit.
[15] Si ricorda, per esempio, come la Suprema corte a
Sezioni Unite (Cass. civ., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26973), censurando una
pronuncia che aveva negato il risarcimento delle spese stragiudiziali sostenute
da un danneggiato affidatosi ad una gestione sinistri, abbia statuito a chiare
lettere quanto segue: “Anche le spese relative alla assistenza tecnica nella
fase stragiudiziale della gestione del sinistro costituiscono danno
patrimoniale conseguenziale dell’illecito, secondo il principio della
regolarità causale (art. 1223 c.c.). Ed è palese che, qualora i danneggiati
avessero affidato ad un legale, e non ad una agenzia di infortunistica, la
gestione dei loro interessi nella fase stragiudiziale avrebbero dovuto
supportare spese probabilmente non inferiori a quelle effettivamente sostenute”.
[16] Si pensi alla tragedia della Costa Concordia:
alcuni parlamentari-avvocati approfittarono clamorosamente della loro doppia
veste per promuovere ovunque i loro servigi professionali, sino ad invitare i
potenziali clienti a contattarli in Parlamento! (tra l’altro sarebbe curioso
sapere quali provvedimenti disciplinari siano stati assunti contro gli stessi
dai rispettivi ordini di appartenenza).
[17] Giustamente, in occasione della seduta avanti il
Senato del 21 dicembre 2012, si è osservato quanto segue: “vi è una
possibile violazione dell’articolo 3 della Costituzione a seguito della
previsione del privilegio dell’esenzione dei parlamentari e dei membri degli
organi legislativi (a scapito di tutti gli altri avvocati che non siedono in
queste Aule) dalla continuità del dovere di formazione. Loro devono aggiornarsi
e devono dimostrare la continuità della formazione, chi siede in queste Aule,
invece, non deve dimostrarla. Questo è scritto nella legge” (Poretti, PD).
[18] In particolare, si è qui convinti che la
disciplina avrebbe dovuto far proprio l’orientamento, sviluppatosi in ambito
deontologico (con riferimento agli artt. 17 e 19 del codice di deontologia),
per cui l’avvocato può sì espletare attività gratuita, ma solo per motivi etici
e sociali. Si trattava di un orientamento invero condivisibile, fatta eccezione
per la precisazione per cui lo svolgimento della prestazione professionale
gratuitamente non poteva essere funzionalizzata a conseguire futuri vantaggi economici:
invero le esperienze straniere insegnano come il lavoro pro bono sia
lungi dal prescindere dal conseguimento di un risultato economico; l’attività è
sì svolta gratuitamente per il cliente, ma con la prospettiva del pagamento
delle prestazioni da parte degli avversari (e ci mancherebbe altro!). Peraltro,
non si comprende se ed in quale modo l’affermazione recata dalla legge sarà da
coordinarsi con le precedenti indicazioni deontologiche.
[20] Così G. Saporito, Il preventivo
dell’avvocato solo su richiesta del cliente, in Il Sole-24-Ore,
27 dicembre 2012, pag. 25.
[21] Va altresì osservato a livello di ratio
legis (ancorché di difficile ricostruzione stante il tortuoso iter di
approvazione del provvedimento) come in più occasioni nel corso del dibattitto
parlamentare si sia fatto riferimento al “sostanziale ripristino del divieto
del patto di quota lite”, segnalandosi che “la disposizione in
particolare reintroduce … il divieto del patto di quota-lite” (così già in
occasione della seduta del 26 gennaio 2011 della Commissione Giustizia della
Camera sul progetto di legge C. 3900).
[22] Il “vecchio” art. 2233, comma 3, c.c. prevedeva
che “Gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori non possono, neppure per
interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni
che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena
di nullità e dei danni”.
[23] M. Cavallaro, Il nuovo avvocato. Guida
alla riforma forense, ItaliaOggi, Matelica, 2013, 44, il quale tuttavia ha
rilevato che precluso è “il patto che ha per oggetto la negoziazione del
compenso con la cessione in tutto o in parte della ragione litigiosa, mentre
ben diversa e del tutto legittima è la pattuizione degli onorari come
percentuale sul valore, non strettamente patrimoniale, che si presume si
ricaverà dall’affare”. Non mi pare che questa distinzione sia così
cristallina, soprattutto laddove la si applichi sul versante delle cause
risarcitorie.
[24] Cfr. Trib. Costituzionale della Germania
Federale (Bundesverfassungsgericht) (Ord.), 12 dicembre 2006, in Foro
It., 2007, 7-8, 4, 408, in cui si è affermato che nel diritto tedesco,
poiché è meritevole di tutela l’interesse del cittadino che cerca giustizia a
trasferire almeno in parte il rischio delle spese giudiziali sull’avvocato che
lo rappresenta, non è compatibile con la garanzia costituzionale della libertà
professionale il divieto legislativo di pattuire onorari forensi di risultato,
compreso il divieto del patto di quota lite, nelle ipotesi in cui altrimenti il
cliente sarebbe indotto a rinunciare a far valere i propri diritti. A questa
sentenza è poi nel 2008 seguita la riforma della legge tedesca sui compensi
professionali forensi (laRechtsanwaltsvergütungsgesetz), confermativa
della legittimità dei patti quota lite pur alla restrittiva condizione che
siano protesi a favorire il cliente altrimenti costretto a rinunciare a
perseguire i suoi diritti.
[26] Con sentenza del 24 novembre 2008, nella causa
n. 5837/2005, il Tribunal Supremo spagnolo ha ritenuto la
legittimità dei patti quota lite. Cfr. V. Muñoz & P. Guerra, Comentario
a la Sentencia del Tribunal Supremo de 4 de noviembre de 2008, las
implicaciones de la cuota litis desde la perspectiva del Derecho de la
competencia (2009) 8 Gaceta Jurídica de la Unión Europea y de
la Competencia, 107.
[27] A chi obietta che il Consiglio degli Ordini
Forensi Europei (CCBE) ha invero previsto tra i “principi fondamentali”
dell’Avvocato Europeo il divieto di patto quota lite si può obiettare quanto
segue: a parte il fatto che tale divieto è contraddetto dalle recenti
evoluzioni dei diritti nazionali degli Stati membri, i vertici di tale
associazione sono nominati dagli organismi forensi nazionali e replicano in
larga misura le posizioni più conservatrici ed antiquate della nostra
professione. Ad ogni modo è da registrarsi comparatisticamente in Europa la
progressiva legittimazione dei patti quota lite in seno ad un numero sempre più
crescente di Stati membri: cfr. C. Hodges, S. Vogenauer & M. Tulibacka, Costs
and Funding of Civil Litigation: A Comparative Study, Oxford Legal Studies
Research Paper No. 55-2009, December 2009. Tra l’altro va segnalato come la
Corte di Giustizia UE (Corte di Giustizia UE, Sezione Grande, 29 marzo 2011,
causa C-565/08) abbia espresso un giudizio positivo sulla disciplina italiana
dei compensi professionali forensi, così come riformata dal “decreto Bersani”:
“la normativa italiana sugli onorari è caratterizzata da una flessibilità
che sembra permettere un corretto compenso per qualsiasi tipo di prestazione
fornita dagli avvocati. Così, è possibile aumentare gli onorari fino al doppio
delle tariffe massime altrimenti applicabili, per cause di particolare
importanza, complessità o difficoltà, o fino al quadruplo di dette tariffe per
quelle che rivestono una straordinaria importanza, o anche oltre in caso di
sproporzione manifesta, alla luce delle circostanze nel caso di specie, tra le
prestazioni dell’avvocato e le tariffe massime previste. In diverse situazioni,
inoltre, è consentito agli avvocati concludere un accordo speciale con il loro
cliente al fine di fissare l’importo degli onorari”.
[28] Esempio: ricorso in appello di soggetto
macroleso affetto da sindrome di locked-in e costretto ad affrontare ingentissime
spese assistenziali e terapeutiche, contributo unificato di € 2.199,00 (!!!).
In ordine all’escalation dei contributi unificati non mi sembra che gli organi
rappresentativi della nostra categoria si siano prodigati in scioperi e tenaci
battaglie. Tra l’altro per effetto della legge 24 dicembre 2012 n. 228 (un
“regalo natalizio” all’incontrario, giacché al nostro legislatore piace
scherzare) dal 30 gennaio 2013 i contributi sulle impugnazioni nel processo
civile vengono raddoppiati nell’ipotesi di dichiarazione di improcedibilità
(cioè si passa in realtà da un “contributo” ad una autentica “sanzione”).
Nell’esempio di cui sopra il macroleso, qualora l’appello venisse dichiarato
improcedibile (magari per un motivo assurdo), si troverebbe pertanto a pagare
allo Stato la somma di € 4.398,00, con obbligo di pagamento a far data dal
deposito del provvedimento (senza, per quanto consta, che il malaugurato possa
sospendere il pagamento nell’attesa del giudizio della Cassazione).
[29] Tra l’altro il gratuito patrocinio è lungi
dall’offrire una concreta tutela ai cittadini. I suoi criteri sono estremamente
stretti e comunque il sistema è tale da non incentivare in alcun modo l’avvocato
ad operare sotto questo regime.
[30] A momenti percepiscono di più i consulenti
tecnici d’ufficio che gli avvocati per un intero giudizio!
[32] Desta invero fastidio che chi pratica i patti
quota lite sia visto dall’alto degli organismi forensi un po’ come un
professionista ai limiti dell’etica. Se al cliente si spiegano per bene le
prospettive dei costi e dei rischi di causa e questi le comprende, non si vede
per quale ragione la stipulazione di un patto quota lite sarebbe “moralmente”
discutibile. Il cliente non viene mica costretto a firmare! Ciò ancor di più
oggi che la clientela perviene agli studi legali con molte informazioni in più
rispetto al passato.
[33] Trib. Costituzionale della Germania Federale (Bundesverfassungsgericht)
(Ord.), 12 dicembre 2006, inForo It., 2007, 7-8, 4, 408.
[34] Si pensi anche solo al medico legale, con
riferimento al quale la giurisprudenza (già prima del “decreto Bersani”) aveva
stabilito quanto segue: “Il consulente tecnico (medico) di parte può
legittimamente stipulare un patto di quota lite, cioè commisurare il suo
compenso in percentuale al risarcimento del danno che la parte assistita
consegua tramite la sentenza o mediante una transazione, non essendo
applicabile al consulente tecnico della parte la norma dell’art. 2233, ultimo
comma, c. c., sia perché norma eccezionale, in quanto deroga al principio della
libera determinazione del compenso nella prestazione dell’opera intellettuale
(art. 2233, 1° comma, c. c.) e perciò non applicabile in via analogica (art. 14
disp. sulla legge in gen.), sia perché al consulente tecnico di parte non
allude la legge nel riferirsi ai patrocinatori” (così App. Milano, 10
aprile 1984, in Resp. Civ. e Prev., 1984, 398). Cfr. per i
ragionieri già Cass. civ., 29 aprile 1982, n. 2709, in Foro It.,
1983, I, 1382: “L’art. 38 della tariffa professionale per i ragionieri e
periti commerciali (approvata con il d. p. r. 25 gennaio 1959, n. 42),
prevedendo a compenso dell’opera di patrocinio prestata davanti alle
commissioni tributarie un onorario “determinato con riferimento al valore della
pratica”, computato sull’ammontare dell'imposta risparmiata “per effetto della
definizione”, con applicazione di diverse percentuali (di minimo e di massimo)
decrescenti per scaglioni di valori crescenti, non infrange il divieto del
patto di quota lite sancito dall’art. 2233, 3° comma, c. c., ma configura
un’ipotesi di cosiddetto “palmario”, del tutto legittimo, in quanto l’operato
riferimento al valore, in danaro, o tradotto in danaro, della controversia
implica apprezzamento della “importanza dell’opera”, conformemente alla
previsione del 2° comma dell’art. 2233 cit., senza che l’assunzione a valore
della controversia, per la determinazione dell’onorario, del valore del
risultato utile per il cliente, anziché di quello della pretesa tributaria
contestata, comporti l’attribuzione di una quota del bene formante oggetto
della controversia medesima”.
[35] Così G. Saporito, Il preventivo
dell’avvocato solo su richiesta del cliente, in Il Sole-24-Ore,
27 dicembre 2012, pag. 25.
[36] Così Cass. civ., Sez. II, 26 aprile 2012, n.
6519, in CED Cassazione, 2012. Cfr. altresì Cass. civ., Sez. Unite,
19 ottobre 2011, n. 21585, in CED Cassazione, 2011. Cfr. già Cass.
civ., Sez. II, 18 giugno 1986, n. 4078, in Mass. Giur. It., 1986.
[37] Vi è ovviamente da domandarsi quale svantaggio
avrebbe il cliente laddove il patto quota lite, invece di aggiungersi al
pagamento di un onorario (dunque con maggior costo per l’assistito),
costituisse l’unica forma di remunerazione per l’avvocato nel contesto di un
rapporto “no win no fee”. Ma è chiaro come nelle pronunce in questione
la Cassazione si trovasse a dover mitigare una preclusione di legge.
[39] E noto è quanto il CNF sia poco incline a
tutelare gli interessi degli avvocati con riferimento a queste pattuizioni,
ricordandosi come nel passato lo stesso abbia ritenuto che pone in essere un
comportamento disciplinarmente rilevante e contrario al divieto del patto di
quota lite l’avvocato che concordi con il cliente il compenso di una
percentuale del 15-20 % del credito per cui è stata instaurata la causa (Cons.
Naz. Forense, 13 dicembre 2000, in Rass. Forense, 2001, 705).
[40] Praticamente per ricevere un contributo
economico che abbia un qualche senso le colleghe dovrebbero attendere i quaranta
anni per mettere al mondo un figlio.
[41] Già per il 2013 aumenta il contributo soggettivo
dal 13% al 14%, per poi arrivare nel 2021 al 15%, con aumenti anche della quota
minima. Nel 2012, con il “retributivo sostenibile”, serviranno 70 anni di età e
35 anni di contribuzione per conseguire la pensione di vecchiaia.
[42] I dati parlano molto chiaro: il 22% degli
avvocati (circa 43.600) dichiara redditi non superiori a 10.000 euro (media
5.000!), mancando all’appello (!!!) il 24% degli iscritti all’albo. Cfr. A.
Bagnoli, Intervento al XXXI Congresso Nazionale Forense, in La
previdenza forense, n. 3/2012, 196. Ovvio è che tra i percettori di redditi
sotto la soglia di sopravvivenza si annoverino molti giovani avvocati, i quali
non sono certo afflitti dal vezzo dell’evasione. Nondimeno è indubitabile che
tra i principali fattori che possono spiegare il 46% di iscritti all’albo, che
di fatto non contribuiscono alla Cassa, si abbia quello dell’evasione. Del
resto, secondo il III Rapporto Eures («Legalità ed evasione fiscale in
Italia viste dai cittadini») tra i professionisti i maggiori evasori fiscali
risulterebbero proprio gli avvocati (42,7%): cfr. V. Vasarri, Evasione
fiscale ed evasione contributiva, in La previdenza forense, n.
3/2012, 205, il quale, dai dati dell’Agenzia delle Entrate per il 2011, rileva,
per quanto concerne l’Avvocatura, un divario del 21% (!) fra reddito dichiarato
alla Cassa e reddito dichiarato al fisco.
[43] Fino al secondo anno successivo alla data di
entrata in vigore della legge l’accesso all’esame di abilitazione all’esercizio
della professione di avvocato rimarrà disciplinato dalle disposizioni vigenti
alla data di entrata della legge stessa, fatta salva la riduzione a diciotto
mesi del periodo di tirocinio.
[44] Per l’anno in corso è previsto per i “trainee
solicitors” il salario minimo di £ 18,590 annue (nel caso di praticantato
svolto in Londra) e di £ 16,650 annue, laddove il praticantato sia svolto in
qualsiasi altra parte dell’Inghilterra o del Galles.
[45] In occasione dell’ultima seduta avanti il Senato
(21 dicembre 2012) veniva (invano) rilevato quanto segue (Senatore Poretti): “Abbiamo
fatto finta di non vedere quello che ha scritto la Commissione lavoro nel
parere che ha dato sul disegno di legge che stiamo esaminando, e quello che ha
paventato proprio su tale articolo, che riguarda i contenuti e le modalità di
svolgimento del tirocinio. In particolare, il comma 11 formula un vero e
proprio divieto di retribuzione dei praticanti avvocati nei primi sei mesi di
tirocinio. La norma, che non trova precedenti in nessun’altra professione, di
tipo ordinistico o meno, salvo l’unico precedente deplorevole di una
disposizione contenuta nel codice deontologico dei consulenti del lavoro,
appare ictu oculi incostituzionale, oltre che penalizzante nei confronti dei
giovani che si affacciano al mondo del lavoro. Questo è stato rilevato dal
senatore Ichino, è stato sottolineato nella Commissione lavoro del Senato e ed
anche dai senatori Castro, Cristina De Luca e Passoni, che hanno rilevato la
contraddizione e, quindi, l’incostituzionalità per disparità di trattamento con
quanto stabilito in tema di apprendistato nel decreto legislativo del 14
settembre 2011 e confermato nella legge n. 92 del 2012 sul mercato del lavoro.
Anche il presidente della Commissione lavoro, previdenza sociale, il senatore
Giuliano, nel corso della medesima seduta ha riconosciuto la «sperequazione»
che verrebbe a crearsi tra enti pubblici ed avvocatura dello Stato e studi
privati attraverso il comma 11 dell’articolo 41. Tale ultimo aspetto implica
evidente violazione dell’articolo 3 della Costituzione in danno dei praticanti
negli enti pubblici e presso l’avvocatura dello Stato, i quali, neppure decorso
il primo semestre di pratica, potrebbero vedersi riconosciuti con apposito contratto
un’indennità o un compenso per l’attività svolta. Mi auguro che sul testo del
parere approvato dalla Commissione lavoro del Senato si apra un pur minimo
dibattito in quest’Aula, perché noi e molti di quei pochi che oggi sono qui
presenti non abbiamo partecipato alle sedute della Commissione lavoro. Però,
siccome la Commissione lavoro ha espresso questo parere così forte, forse è il
caso che ce lo raccontino o ci dicano come voteranno rispetto a questo articolo
e agli emendamenti. Leggo quindi il parere e mi auguro che qualcuno ce lo
spieghi. «La Commissione lavoro, previdenza sociale, esaminato il disegno di
legge in titolo esprime per quanto di competenza parere favorevole,
evidenziando tuttavia rilevanti perplessità sull’articolo 41, comma 11, modificato
nel corso dell’esame presso l’altro ramo del Parlamento, che sembrerebbe
imporre di fatto un divieto di erogazione di indennità o compenso ai praticanti
durante il primo semestre del tirocinio stesso. La diposizione oltre a
confliggere con l’articolo 35 della Costituzione, introduce una immotivata
quanto ingiusta sperequazione tra il tirocinio effettuato presso l’avvocatura
dello Stato e gli enti pubblici e gli studi legali privati. Si sollecita
pertanto la Commissione di merito a tenere in considerazione quanto sopra e a
rivedere la disposizione in parola». La Commissione di merito è la Commissione
giustizia per quanto, agli occhi degli ingenui come, questo provvedimento si
sarebbe dovuto esaminare in Commissione lavoro. Ovviamente così non è stato ed esso
viene esaminato invece in Commissione giustizia, visto che parla di ordine
degli avvocati e della professione forense, che non è lavoro - va da sé - ma
qualcosa di diverso, vale a dire una professione ordinistica. La Commissione
giustizia - sappiamo bene - non ha voluto prendere in esame nessuno tipo di
emendamento e al momento non è stata neppure presa in esame la considerazione
fatta dalla Commissione lavoro. Mi auguro che lo si faccia almeno in
quest’Aula, chiedendo intanto ai senatori della Commissione lavoro, che hanno
votato a favore di una riformulazione dell’articolo 41, se davvero vogliono
modificare il testo - ed in tal caso come - o se hanno invece cambiato idea”.
[46] Tra l’altro, pur entrando in vigore la “riforma”
dell’esame a due anni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, gli effetti
della disciplina, per quanto concerne l’accesso dei giovani alla professione,
si faranno sentire già nel breve periodo: gli avvocati, infatti, non
mancheranno di farsi i conti circa la situazione in cui verrà a trovarsi il
candidato praticante con il nuovo sistema d’accesso.
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