La partecipazione al rischio di impresa
dovrà essere scrutinata con maggiore attenzione d'ora in avanti per stabilire
la genuinità dei contratti di associazione in partecipazione.
E non solo per la ben nota
"stretta" indotta dalla legge 92/2012, ma anche in forza di una presa
di posizione della Corte di Cassazione.
Nella sentenza 2496/2012 (21/02), gli
Ermellini hanno stabilito che il lavoro subordinato dell'Associato in
partecipazione si presume, se dal contesto della contrattualistica non emergono
elementi tali da giustificare una partecipazione di essi più intima e intensa
al rischio di impresa.
La sentenza ha suscitato sorprese e
critiche molto giustificate tra i Commentatori (vedi DE FAZIO, Guida al
lavoro, 11/2012), specie nella parte in cui enuncia come criterio dirimente
per la genuinità dell'associazione il principio secondo cui l'assenza di
partecipazione alle perdite dimostra la non genuinità del rapporto, ossia la
mancanza di un requisito essenziale. Si tratta, però, di una distorsione più
apparente che sostanziale, che si attenua solo che si contestualizzi la
sentenza.
La pronuncia de qua non è
un giudizio di puro diritto.
La sentenza invece va intesa come
scrutinio di altra sentenza, che solo per questo "medio" arriva
all'enunciazione di una regola di diritto: in questi termini, si deve ritenere
che la Cassazione abbia ritenuto coerente le conclusioni delle Magistrature
inferiori che hanno fatto applicazione (in base ai precedenti di Cass.
24871/2006; App. Venezia 15/10/2011), ai fini dello scrutinio della genuinità
dell'associazione in partecipazione, all'argomento dell'id quod plerunque
accidit: es. siccome è normale che la Commessa di negozio sia dipendente,
questo argomento vale a ritenere provato il lavoro subordinato della
Commessa-Associata.
In questo senso, deve a mio modesto avviso
inquadrarsi quel passaggio della sentenza che liquida brevissimamente la
questione utili-perdite: come dire, davanti all'argomento prevalente di
subordinazione (id quod plerunque accidit), l'argomento utili-perdite è
assorbito (ubi maior, minor cessat!).
In questo senso, allora, la sentenza deve
intendersi come
elaborazione di
un criterio tipicamente "pretorio", di ripartizione dell'onere
della prova della genuinità del contratto di associazione in partecipazione, il
principio secondo cui se la prestazione dell'Associato presenta rilevanti
analogie con il lavoro dipendente, il lavoro dipendente si presume e non vale
contrapporre altro argomento.
Aldilà delle indubbie lacune e approssimazioni
in punta di diritto, deve comunque precisarsi che ai fini operativi alle
Aziende non interessa disquisire su norme astratte, quanto verificare se e come
da una sentenza pure tanto restrittiva e rigorosa possano trarsi argomenti per
invertire l'onere della prova dell'Associazione in partecipazione,
precostituendo in questo senso una contrattualistica solida (che per altro può
essere certificata, con i benefici tuttora assicurati dall'art. 70 D.lgs.
276/03).
A questo fine, anche per un'eventuale sede
di certificazione dell'associazione in partecipazione, devono valorizzarsi i
seguenti passaggi della sentenza:
"La
partecipazione al rischio d'impresa da parte dell'associato caratterizza la
causa tipica dell'associazione in partecipazione.
(...)
l'elemento
differenziale tra le due fattispecie risiede essenzialmente nel contesto
regolamentare pattizio in cui si inseriscono rispettivamente l'apporto della
prestazione lavorativa da parte dell'associato e l'espletamento di analoga
prestazione lavorativa da parte di un lavoratore subordinato. Tale accertamento
implica necessariamente una valutazione complessiva e comparativa dell'assetto
negoziale, quale voluto dalle parti e quale in concreto posto in essere. Ed
anzi la possibilità che l'apporto della prestazione lavorativa dell'associato
abbia connotazioni in tutto analoghe a quelle dell'espletamento di una
prestazione lavorativa in regime di lavoro subordinato comporta che il fulcro
dell'indagine si sposta soprattutto sulla verifica dell'autenticità del rapporto
di associazione.
A questo riguardo, se la sentenza rende
sempre più recessivo (e inutile) il requisito della ripartizione utili-perdite,
viceversa valorizza enormemente la contrattualistica e il quadro della
distribuzione dei poteri-obblighi lì realizzati.
Inoltre, l'attenzione al rischio di
impresa rende la fattispecie di associazione in partecipazione accostabile
all'appalto, in particolare all'art. 1655 del Codice Civile e
alla giurisprudenza ivi elaborata sugli "indici" per scrutinare la cd
"genunità" degli appalti, dalle fattispecie sul limitare del
"lavoro subordinato": è questa la cd
giurisprudenza del nudus minister.
A questi fini, proseguendo
nell'analogia, può dirsi che si possa dare per scontato, in capo
all'Associante, un potere di influenza sull'Associato,
connaturato nella circostanza che l'associazione (come tutti i contratti
di prestazione di servizi, tra cui anche l'appalto) è preordinato alla
produzione di un bene o di un servizio, destinato a ricadere nella sfera di
utilità soggettiva del Committente medesimo. In questi termini, senza
dilungarsi in eccessive "pandette", deve ritenersi decisamente
giustificato (e non indiziato di lavoro subordinato) il potere di recesso
dell'Associante se modellato ex. art. 1662 del Codice Civile.
Recesso cioè consentito qualora l'Associato continui a disattendere in sede di
esecuzione dell'opera le condizioni stabilite dal contratto stesso e le regole
dell'arte, nonostante sia stato invitato a correggere tali difformità
dall'Associante stesso. Un potere, quest'ultimo, consentito quando i difetti
siano rimediabili; laddove, invece, lo sviluppo del rapporto ha dato luogo a
vizi di per sè non più rimediabili, l'Associante può chiedere, ai sensi
dell'art. 1453 del Codice Civile, la risoluzione del contratto
immediata per inadempimento e il risarcimento del danno.
Dal sistema delle norme del Codice
Civile, poi, e in analogia con la giurisprudenza sugli
appalti, si può ritenere che i poteri dell'Associante verso
l'appaltatore possono essere:
a) Correttivi, se
finalizzati a correggere eventuali irregolarità commesse dall'Associato durante
l'esecuzione dei lavori (art. 1662.02°comma C.C.);
b) Modificativi, se
comportano vere e proprie modifiche del progetto, o se manca questo, delle
modalità realizzative convenute in sede negoziale (art. 1661 C.C.);
c) Integrativi, se
completano la fase progettuale senza modificarla, e, quindi, tale da costituire
una semplice integrazione di quanto precedentemente disposto (art. 1661 Codice
Civile).
Di massima, spulciando la copiosa
giurisprudenza che si è sviluppata su tale complessa tematica, si può dire
quanto segue:
-E' compatibile con la nozione di
appalto la forma di controllo, sorveglianza e istruzione esercitata
dall'Associante per assicurarsi l'esecuzione dell'opera secondo patti e regole
dell'arte;
-Non è compatibile con la nozione di
appalto un controllo che invade il campo dell'organizzazione materiale
dell'impresa e quella tecnica del lavoro, salvo giustificazione.
A margine, ricordiamo che l'appaltatore
può non conformarsi alle istruzioni dell'Associante nei seguenti casi:
a) Sia possibile adottare tecniche
alternative ugualmente valida dal punto di vista professionale;
b) Sia possibile adottare tecniche
non concordate preventivamente, ma contemplate negli usi del luogo ove l'opusdebba
essere realizzato;
c) L'adeguamento alle
disposizioni dell'Associante determina danni a terzi o violazione di norme
imperative.
Dr. Giorgio Frabetti
Consulente d'Azienda in Ferrara
In particolare le
mansioni degli associati/lavoratori erano consistite essenzialmente
nell'apertura e nella chiusura del negozio, nella pulizia e nella tenuta in
perfetto ordine del negozio stesso, nella riscossione delle vendite e nella
successiva rimessa a fine giornata dei ricavi a mezzo di cassa continua alla
società. Si trattava pertanto di una prestazione lavorativa standardizzata.
Dalle risultanze di causa era altresì emersa l'osservanza dell'orario di lavoro
ben determinato, non contraddetto da una certa autonomia degli associati
dell'organizzazione del lavoro. Era altresì emerso un controllo penetrante
costante sull'operato degli associati da parte dell'assodante; di qui una
soggezione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di
lavoro tanto che era rimesso alla facoltà insindacabile dell'assodante di non
rinnovare il contratto alla scadenza dei sei mesi di validità. Era poi mancato
un vero e proprio rendiconto periodico.