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venerdì 14 settembre 2012

PER UN'ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE A PROVA DI CERTIFICAZIONE


La partecipazione al rischio di impresa dovrà essere scrutinata con maggiore attenzione d'ora in avanti per stabilire la genuinità dei contratti di associazione in partecipazione.
E non solo per la ben nota "stretta" indotta dalla legge 92/2012, ma anche in forza di una presa di posizione della Corte di Cassazione.
Nella sentenza 2496/2012 (21/02), gli Ermellini hanno stabilito che il lavoro subordinato dell'Associato in partecipazione si presume, se dal contesto della contrattualistica non emergono elementi tali da giustificare una partecipazione di essi più intima e intensa al rischio di impresa.
La sentenza ha suscitato sorprese e critiche molto giustificate tra i Commentatori (vedi DE FAZIO, Guida al lavoro, 11/2012), specie nella parte in cui enuncia come criterio dirimente per la genuinità dell'associazione il principio secondo cui l'assenza di partecipazione alle perdite dimostra la non genuinità del rapporto, ossia la mancanza di un requisito essenziale. Si tratta, però, di una distorsione più apparente che sostanziale, che si attenua solo che si contestualizzi la sentenza.
La pronuncia de qua non è un giudizio di puro diritto.
La sentenza invece va intesa come scrutinio di altra sentenza, che solo per questo "medio" arriva all'enunciazione di una regola di diritto: in questi termini, si deve ritenere che la Cassazione abbia ritenuto coerente le conclusioni delle Magistrature inferiori che hanno fatto applicazione (in base ai precedenti di Cass. 24871/2006; App. Venezia 15/10/2011), ai fini dello scrutinio della genuinità dell'associazione in partecipazione, all'argomento dell'id quod plerunque accidit: es. siccome è normale che la Commessa di negozio sia dipendente, questo argomento vale a ritenere provato il lavoro subordinato della Commessa-Associata[1].

In questo senso, deve a mio modesto avviso inquadrarsi quel passaggio della sentenza che liquida brevissimamente la questione utili-perdite: come dire, davanti all'argomento prevalente di subordinazione (id quod plerunque accidit), l'argomento utili-perdite è assorbito (ubi maior, minor cessat!).
In questo senso, allora, la sentenza deve intendersi come
 elaborazione di un criterio tipicamente "pretorio", di ripartizione dell'onere della prova della genuinità del contratto di associazione in partecipazione, il principio secondo cui se la prestazione dell'Associato presenta rilevanti analogie con il lavoro dipendente, il lavoro dipendente si presume e non vale contrapporre altro argomento.
Aldilà delle indubbie lacune e approssimazioni in punta di diritto, deve comunque precisarsi che ai fini operativi alle Aziende non interessa disquisire su norme astratte, quanto verificare se e come da una sentenza pure tanto restrittiva e rigorosa possano trarsi argomenti per invertire l'onere della prova dell'Associazione in partecipazione, precostituendo in questo senso una contrattualistica solida (che per altro può essere certificata, con i benefici tuttora assicurati dall'art. 70 D.lgs. 276/03).
A questo fine, anche per un'eventuale sede di certificazione dell'associazione in partecipazione, devono valorizzarsi i seguenti passaggi della sentenza:

"La partecipazione al rischio d'impresa da parte dell'associato caratterizza la causa tipica dell'associazione in partecipazione.
(...)
l'elemento differenziale tra le due fattispecie risiede essenzialmente nel contesto regolamentare pattizio in cui si inseriscono rispettivamente l'apporto della prestazione lavorativa da parte dell'associato e l'espletamento di analoga prestazione lavorativa da parte di un lavoratore subordinato. Tale accertamento implica necessariamente una valutazione complessiva e comparativa dell'assetto negoziale, quale voluto dalle parti e quale in concreto posto in essere. Ed anzi la possibilità che l'apporto della prestazione lavorativa dell'associato abbia connotazioni in tutto analoghe a quelle dell'espletamento di una prestazione lavorativa in regime di lavoro subordinato comporta che il fulcro dell'indagine si sposta soprattutto sulla verifica dell'autenticità del rapporto di associazione.

A questo riguardo, se la sentenza rende sempre più recessivo (e inutile) il requisito della ripartizione utili-perdite, viceversa valorizza enormemente la contrattualistica e il quadro della distribuzione dei poteri-obblighi lì realizzati.
Inoltre, l'attenzione al rischio di impresa rende la fattispecie di associazione in partecipazione accostabile all'appalto, in particolare all'art. 1655 del Codice Civile e alla giurisprudenza ivi elaborata sugli "indici" per scrutinare la cd "genunità" degli appalti, dalle fattispecie sul limitare del "lavoro subordinato": è questa la cd giurisprudenza del nudus minister.
A questi fini, proseguendo nell'analogia, può dirsi che si possa dare per scontato, in capo all'Associante, un potere di influenza sull'Associato, connaturato nella circostanza che l'associazione (come tutti i contratti di prestazione di servizi, tra cui anche l'appalto) è preordinato alla produzione di un bene o di un servizio, destinato a ricadere nella sfera di utilità soggettiva del Committente medesimo. In questi termini, senza dilungarsi in eccessive "pandette", deve ritenersi decisamente giustificato (e non indiziato di lavoro subordinato) il potere di recesso dell'Associante se modellato ex. art. 1662 del Codice Civile. Recesso cioè consentito qualora l'Associato continui a disattendere in sede di esecuzione dell'opera le condizioni stabilite dal contratto stesso e le regole dell'arte, nonostante sia stato invitato a correggere tali difformità dall'Associante stesso. Un potere, quest'ultimo, consentito quando i difetti siano rimediabili; laddove, invece, lo sviluppo del rapporto ha dato luogo a vizi di per sè non più rimediabili, l'Associante può chiedere, ai sensi dell'art. 1453 del Codice Civile, la risoluzione del contratto immediata per inadempimento e il risarcimento del danno.
Dal sistema delle norme del Codice Civile, poi, e in analogia con la giurisprudenza sugli appalti, si può ritenere che i poteri dell'Associante verso l'appaltatore possono essere:

a) Correttivi, se finalizzati a correggere eventuali irregolarità commesse dall'Associato durante l'esecuzione dei lavori (art. 1662.02°comma C.C.);
b) Modificativi, se comportano vere e proprie modifiche del progetto, o se manca questo, delle modalità realizzative convenute in sede negoziale (art. 1661 C.C.);
c) Integrativi, se completano la fase progettuale senza modificarla, e, quindi, tale da costituire una semplice integrazione di quanto precedentemente disposto (art. 1661 Codice Civile).

Di massima, spulciando la copiosa giurisprudenza che si è sviluppata su tale complessa tematica, si può dire quanto segue:
-E' compatibile con la nozione di appalto la forma di controllo, sorveglianza e istruzione esercitata dall'Associante per assicurarsi l'esecuzione dell'opera secondo patti e regole dell'arte;
-Non è compatibile con la nozione di appalto un controllo che invade il campo dell'organizzazione materiale dell'impresa e quella tecnica del lavoro, salvo giustificazione.

A margine, ricordiamo che l'appaltatore può non conformarsi alle istruzioni dell'Associante nei seguenti casi:
a) Sia possibile adottare tecniche alternative ugualmente valida dal punto di vista professionale;
b) Sia possibile adottare tecniche non concordate preventivamente, ma contemplate negli usi del luogo ove l'opusdebba essere realizzato;
c) L'adeguamento alle disposizioni dell'Associante determina danni a terzi o violazione di norme imperative.

Dr. Giorgio Frabetti
Consulente d'Azienda in Ferrara



In particolare le mansioni degli associati/lavoratori erano consistite essenzialmente nell'apertura e nella chiusura del negozio, nella pulizia e nella tenuta in perfetto ordine del negozio stesso, nella riscossione delle vendite e nella successiva rimessa a fine giornata dei ricavi a mezzo di cassa continua alla società. Si trattava pertanto di una prestazione lavorativa standardizzata. Dalle risultanze di causa era altresì emersa l'osservanza dell'orario di lavoro ben determinato, non contraddetto da una certa autonomia degli associati dell'organizzazione del lavoro. Era altresì emerso un controllo penetrante costante sull'operato degli associati da parte dell'assodante; di qui una soggezione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro tanto che era rimesso alla facoltà insindacabile dell'assodante di non rinnovare il contratto alla scadenza dei sei mesi di validità. Era poi mancato un vero e proprio rendiconto periodico.

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